mercoledì 30 ottobre 2013

Halloween. Spunti e tradizioni da una "festa" contestata

Halloween.. festa straniera, tradizione lontana, appuntamento macabro, qualcosa che non ci appartiene! Queste sono solo alcune delle tante affermazioni che ritualmente riecheggiano nei giorni a cavallo tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre. Appuntamento tanto "contestato" dai presunti conservatori tradizionalisti eppure sempre più presente tra le "feste da celebrare" di bambini, giovani e neo pagani. Ricorrenza ricadente nella notte tra il 31 ottobre ed il 1^ novembre, Halloween si incrocia e si interseca con usi e tradizioni di provenienza eclettica e dalle motivazioni talvolta contrastanti. Sebbene gli strenui difensori delle così dette "tradizioni locali" si affannino a denunciarne l'estraneità - eludendo anche quella indicazione che vede la Tradizione come una "...innovazione ben riuscita" (Oscar Wilde) - molti sono gli elementi che legano una festa quasi del tutto commerciale all'identità del nostro territorio (e non solo). È il caso, quindi, di provare a fare un po' d'ordine muovendo da alcune "certezze" che almeno ufficialmente appartengono ai nostri costumi. Seguendo il ciclo delle stagioni ed i riti ad esso collegato a questa fase dell'anno si scoprono numerose ricorrenze di passaggio estate/inverno, fertilità/raccolto, semina/ibernazione etc. È ovvio che nelle civiltà contadine del passato l'ingresso nella stagione invernale non poteva non essere associato alla morte: "...se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo. Se invece muore, produce molto frutto" (Vangelo di San Giovanni 1 cor. 15, 36). Concetto, quello della morte, inteso in senso ampio: collegamento e ricongiungimento tra il sotto e il sopra (semina), sospensione dell'attività lavorativa e della fertilità (periodo di razionalizzazione dei beni), ma anche di passaggio e di rigenerazione: la morte che precede un nuovo inizio (i riti del fuoco poi legati anche ai santi Nicola, Lucia, Antonio Abate etc.). Un punto di partenza possibile per la comprensione degli elementi che compongono questa ricorrenza può essere un riferimento tradizionalmente legato alla nostra cultura: la festa di Ognissanti. Quest'ultima sembra fosse celebrata già ai primordi della cristianità ma fu ufficializzata solo nel 609, quando Papa Bonifacio IV dedicò il Pantheon alla vergine Maria e ai Martiri. Questa celebrazione cadeva il 13 maggio. Lo spostamento della data al primo novembre potrebbe essere uno dei tanti incroci con la ricorrenza di Halloween. I popoli del Nord Europa (anch'essi!) celebravano la chiusura del nuovo anno proprio il 31 di Ottobre con tutte le conseguenze simboliche e rituali di passaggio alle quali si è accennato sopra. Come d'abitudine, la Chiesa, nel tentativo di Cristianizzare senza intervenire troppo drasticamente nei "culti" pagani precostituiti, 'incastrò' le due ricorrenze per svilire l'appuntamento dai significati più arcaici. La decifrazione del significato del nome di Halloween, a quanto pare, è una delle prove più interessanti a conferma di questo percorso. La definizione, paradossalmente, ha origini cattoliche: dall'antica denominazione "All Hallows'Day" si arriva a"All Saints'Day"; la sera precedente al 1° Novembre era chiamata "All Hallows' Eve"(sera), abbreviata, poi, in "Hallows'Even", "Hallow-e'en" ed, infine, in Halloween. In linea generale, per i popoli nordici grande importanza era assunta dalla divinità di Samhain la cui festa cadeva proprio in questi giorni di passaggio tra estate e inverno (vecchio e nuovo anno) simboleggiando distruzione e ricostruzione. Un rituale che, nei suoi significati originari, potrebbe ricordare il "nostro" carnevale per la sua "...promulgazione del mondo alla rovescia" (Peter Burke). In sintesi, se è vero che una festa dedicata ai santi sia sempre esistita (in date discordanti) è lecito pensare che le istituzioni cristiane del nord Europa (non solo celtiche), nel loro impegno di transizione dai culti pagani, manifestassero l'esigenza di collocare un precetto cristiano su un'antico è consolidato culto (il capodanno celtico, appunto). Nulla di straordinario e di nuovo considerato che tra le festività più importanti della cristianità - come il Natale e San Giovanni Battista - ci sono numerosi riferimenti al ciclo solare. Il dislocamento di commemorazione che riguarda da vicino anche la "commemorazione dei defunti", in origine celebrata tra gennaio e febbraio (periodo di germinazione ed antecedente alla Quaresima) e che un'altra riforma della Chiesa nord europea colloca nel mese di Samhain (novembre). Il culto dei morti è il collegamento più diretto che solitamente si fa con Halloween e la discendenza arcaica di questo appuntamento. Senza indagare la nostra storia del legame culturale con l'aldilà - dall'ingresso all'ade della solfatara di Pozzuoli e della Mefite dell'Irpinia fino al cimitero delle fontanelle - proprio la commemorazione dei defunti porta con sé i maggiori collegamenti con Halloween. Basta una semplice elencazione di alcuni usi per accorgersene: le zucche illuminate presenti anche nel centro-sud Italia ed i 'nostri' lumini ai davanzali, la processione dei morti, le tavole lasciate imbandite per il passaggio dei cari reincarnati, il "dolcetto o scherzetto" e i nostri doni ai bambini. Per questi ultimi, la ricorrenza dei morti nel recente passato era vissuta alla strenua del Natale. Dalla Sicilia al Trentino i bambini erano coinvolti con piccoli doni o con un abbigliamento rituale (collane e corone di cibi secchi) e nel nostro Sannio erano in ansiosa attesa del mattino per il dono che i cari defunti avrebbero lasciato. Tradizione che in alcuni luoghi si è legata al culto di Santa Lucia (Nord Est Italia), all'Epifania (centro Sud) e, in generale, al periodo natalizio. Insomma, è probabile (ma chi può affermarlo) che la festa di Halloween abbia la sua origine più remota tra culture di provenienza lontana dalla nostra così come è vero che il culto e la venerazione dell'aldilà e di tutti i significati impliciti appartiene ad ogni cultura umana (compresa la nostra). Di certo Halloween così come lo conosciamo noi ha poco a che fare con i Celti e, forse, ne ha molto di più con la nostra civiltà occidentale moderna (della quale, volente o nolente, siamo fruitori ma anche artefici). Partendo dal presupposto che sono davvero rare (forse inesistenti) le tradizioni realmente antiche che ancora persistono nelle nostre abitudini - dai canti alle danze, dai simboli alle ricette, dagli abiti alle cerimonie nessuna ha più di qualche secolo - 'celebrare' Halloween non dovrebbe apparire qualcosa di così extraterritoriale. La tradizione è di chi la fa e segue evoluzioni che nessun legislatore o presunto custode può permettersi di bloccare, consapevoli che la Tradizione non riguarda solo aspetti bucolici del passato di cui difenderne a denti stretti i valori. Quando parlo in questi termini invito sempre gli interlocutori a pensare alle tradizioni di cui farebbero volentieri a meno...la condizione della donna, le fatture, le janare e le malelingue, il valore dato alle parole onore e vergogna e così via. Questo, a pensarci bene, riguarda anche Halloween considerato che a nessuno verrebbe in mente di tramandare, in questi giorni, la identitarissima tradizione di mangiare sulle tombe dei propri cari (Tradizione siciliana del '900). È pur vero considerare il recente consolidarsi di un gusto splatter e di passivismo a cui sono rivolte le nuove generazioni (alimentati anche dagli strumenti culturali e da un rinnovato decadentismo socio-familiare). Detto tutto ciò, credo che lo sforzo a cui forse inutilmente tutti ci sottoponiamo è comprendere cosa più o meno appartiene alla nostra identità. Ad un primo sguardo verrebbe da dirsi tutto e niente. Ma alla fine di tutto questo lungo discorso penso che l'unica cosa che è giusto chiedersi è che senso hanno oggi le così dette tradizioni? Mi spiego meglio: se dobbiamo lottare per la conservazione di un "costume" del quale si è persa la motivazione sociale e rituale è probabile che quella tradizione si è trasformata prima ancora che ce n'è rendessimo conto? Sarà tradizione ogni qualvolta, inconsapevolmente, gli daremo un significato rituale personale all'interno di una esigenza culturale sociale; ogni volta che un fidanzato comprerà la "cupeta" per la fidanzata o per la suocera; quando quello dei morti sarà l'unico periodo in cui andiamo al cimitero; e, perché no, allorquando i bambini del quartiere ci chiederanno un "dolcetto" in cambio di un sorriso bene augurante. Perché in fondo il rito non è altro che "...quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora diversa dalle altre ore" (Antoine De Saint-Exupery).

domenica 29 settembre 2013

Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere

Quella di Leonardo Sinisgalli è sicuramente una delle figure più interessanti nel panorama culturale del Novecento. Potrà sorprendere la sua presenza all’interno di un blog dedicato al Sannio. Sinisgalli, infatti, nasce a Montemurro, in provincia di Potenza, nel 1908; eppure, è proprio a Benevento che il poeta/prosatore potentino compie i suoi primi studi, ed è in viaggio verso Benevento che si compie uno degli eventi che più di ogni altro condizionerà la sua poetica futura. Di famiglia umile, il giovanissimo Leonardo riesce, grazie all’intercessione del parroco del paese, impressionato dalla sua intelligenza e vivacità mentale, a compiere i suoi primi studi in un collegio, prima nel capoluogo sannita e poi a Caserta. La notizia del crollo del ponte sull’Agri, che Sinisgalli aveva attraversato per arrivare a Benevento, lo colpisce molto, al punto che la “paura del vuoto” (HORROR VACUI) diventa uno dei temi dominanti della sua poetica. Ma questa emigrazione forzosa segna anche la separazione definitiva di Sinisgalli dalle proprie origini, sancendo la sua morte di ragazzo (concetto presente anche nel poeta salernitano Alfonso Gatto, secondo il quale esiste un’età in cui il giovane muore per rinascere nell’età dell’adolescenza) e creando i presupposti per lo sviluppo futuro di tematiche fondamentali come quella dello sradicato/esule in patria e quella delle camere ammobiliate. Eccellente poeta e notevolissimo prosatore (non è facile stabilire quale parte fu più eminente), Sinisgalli compie un percorso professionale davvero particolare: a Roma – il conseguimento della laurea in Ingegneria Elettro-tecnica sotto la guida del premio Nobel Enrico Fermi e dei maggiori scienziati dell’epoca, gli farà guadagnare l’appellativo di “poeta-ingegnere”; in particolare, frequentando gli ambienti artistici e intellettuali della capitale, Sinisgalli stringerà amicizia con il pittore Gino Scipione e con Ungaretti, la cui influenza sarà decisiva per l’orientamento poetico, sebbene i suoi versi, sin dall’inizio, se ne stacchino per una più elementare e al tempo stesso immaginosa discorsività. Per poter coltivare gli interessi letterari, Sinisgalli rifiuta l’invito, rivoltogli da Enrico Fermi, di entrare a far parte del suo istituto per le ricerche sulla fisica atomica; eppure, dopo la laurea, nel 1931 si trasferisce a Milano, dove lavorerà presso importanti industrie, occupandosi anche di pubblicità e di design, mettendo insieme la duplice esperienza maturata in campo scientifico e letterario. In effetti, tutta la sua produzione muove dall’esigenza di far convivere, nella scrittura, le sue due diverse vocazioni, che hanno trovato in lui un interprete e un promotore particolarmente qualificato: autore di cortometraggi scientifici, ha diretto nel 1953 la rivista “Civiltà delle macchine”, promossa dalla Finmeccanica, l’ente di Stato preposto allo sviluppo e alla gestione dell’industria metallurgica. Ma l’articolazione dei suoi interessi si rivela in particolare nei volumi di prose, tra cui Furor mathematicus (1944) e il già citato Horror vacui (1945), ma non tocca sostanzialmente le caratteristiche della poesia, che, fin dagli esordi, si esercita su un mondo di ricordi familiari e sulle immagini del paese natale, trasfigurando la dimensione primitiva in un’atmosfera favolosa e fantastica. Su questa linea, Sinisgalli curerà la trascrizione di filastrocche e canzoncine lucane, con un linguaggio di calcolata ed esibita ingenuità; così come le poesie, che trovano le proprie certezze nella mitizzazione di un mondo ancestrale. La distinzione operata dal regime Fascista negli anni Trenta fra “cultura-azione”, che interessava direttamente le grandi masse, e “cultura-laboratorio”, elaborata da piccoli gruppi di intellettuali per un pubblico d’élite e dunque relativamente meno soggetta al controllo da parte della censura, costrinse i letterati a scegliere tra due possibili strade: o fare arte-propaganda per conto del regime e così venire i contatto con il grande pubblico, oppure ritirarsi in un atteggiamento di distacco e di “purezza” (cioè di estraneità a ogni forma di impegno sociale e politico) limitandosi a scrivere per pochissimi lettori. Per i poeti che scelgono questa seconda strada – i più significativi – ritorno alla tradizione significa ritorno alla purezza della lirica. Anche per l’influenza dominante del filosofo idealista Benedetto Croce e della sua idea dell’arte come intuizione pura, si opta per una poesia rarefatta, ridotta a semplice sensibilità metaforica, programmaticamente estranea a un tessuto logico o ragionativo. L’eclettismo lirico ispirato a questa linea di poesia pura trova in Leonardo Sinisgalli uno dei suoi più attenti esecutori. Tra il 1938-39, la rivista fiorentina “Campo di Marte”, diretta da Vasco Pratolini e Alfonso Gatto, dà voce alla tensione sinisgalliana verso un’ essenza universale dell’uomo che solo l’arte sarebbe in grado di cogliere e garantisce fecondi punti di contatto tra il “suo” Ermetismo – meno “oscuro”, più aperto e discorsivo rispetto a quello quasimodiano e gattiano – e il nascente Neorealismo. La tendenza alla “poesia pura” – cioè assoluta, esclusivamente lirica e programmaticamente estranea al discorso logico ed ideologico – viene recuperata ed estremizzata dall’Ermetismo, che affonda le proprie radici in una ideologia volta a identificare la vita e la poesia. La svolta degli anni Cinquanta determina profonde trasformazioni nell’organizzazione della cultura in tutto l’Occidente. Si sviluppa un’enorme “macchina culturale” che si articola in grandi “apparati” (editoria, televisione, cinema, audiovisivi, scuola), canalizzando i servizi e le merci verso una destinazione sociale di massa, organizzandosi industrialmente e puntando al massimo profitto possibile. Allo stesso modo, la scuola media dell’obbligo prima e la liberalizzazione degli accessi all’università poi segnano il passaggio dalla scuola media superiore e dell’università da scuole d’élite, com’erano sino a metà degli anni Cinquanta, a scuole di massa. Le conseguenze sono soprattutto due: il processo di proletarizzazione, già avviatosi nell’età giolittiana e poi bloccato dal Fascismo, riprende su vasta scala: l’intellettuale diventa “di massa”, trasformandosi in una sorta di “tecnico” o di “operaio intellettuale”; la funzione dell’intellettuale umanista, che era stata restaurata fra le due guerre e mantenuta dalla cultura dello storicismo postbellico, entra in crisi, anche a causa della perdita di prestigio dell’umanesimo in un mondo dominato ormai dalla tecnologia: si sfalda l’immagine dell’intellettuale come portatore di valore e depositario di una visione totalizzante del mondo. Di fatto, l’intellettuale non forma più ideologie ma può solo diffonderle da posizioni subalterne, per conto degli “apparati” in cui lavora. Gli anni Cinquanta costituiscono per il poeta/prosatore potentino un periodo molto critico della sua vita; alla fine dell’ultima guerra la sua intera visione del mondo viene ridimensionata – in accordo ad un nuovo senso di irrequietezza esistenziale – come si evince dalle dieci pièces raccolte ne L’Indovino, un’ opera dove due sagome, due fantasmi, un Re e il suo Indovino, emblemi di tutti i dualismi – insieme opposti e confinanti tra loro – si rilanciano abilmente il discorso sollecitati da un’intesa straordinaria, volta a un comune cammino sapienziale, e magari a una medesima discesa infernale. L’universo de “L’indovino” è un luogo fermo e insensibile a ogni moto di espansione, ma racchiude al tempo stesso un potenziale di inquietudine e di sorpresa che ne anima continuamente la prospettiva e che non consente a Sinisgalli un’opzione definitiva tra matematica e poesia.

mercoledì 25 settembre 2013

Francesco Flora, umanista sannita

Colle Sannita è un piccolo borgo in provincia di Benevento. Qui, il 27 ottobre 1891, nacque Francesco Flora, uno dei maestri della vita letteraria italiana, che per tutto il corso della sua vita intrattenne una fitta rete di relazioni con personaggi di primaria importanza nel panorama culturale e politico del Novecento. Terzo di otto fratelli, Francesco Flora condusse i suoi primi studi tra Benevento e Roma, dove conseguì la laurea in Diritto, e dopo essersi avvicinato alle lettere «per trasporto e con metodo in gran parte autodidattico» - come egli stesso affermò nell’autoritratto pubblicato da “Letterature Moderne” nel 1960 – esordì con un articolo che apparve nel 1912 su “La luce del pensiero”. Nel 1921 pubblicò il saggio “Dal Romanticismo al Futurismo” e due anni dopo entrò nella redazione de “La Critica” (l’unica impresa editoriale anti-fascista non soppressa) diretta da Benedetto Croce, suo maestro, diventandone l’anno dopo editore responsabile, incarico che conservò fino al 1944. In un secolo in cui le imprese editoriali influirono notevolmente sulla vita intellettuale e sulla storia recente del Paese, favorendo momenti profondi di coscienza civile , il contributo di Francesco Flora permise di dare vita a processi importanti di elaborazione e di comunicazione delle idee. L’intensità del suo impegno politico e sociale risulta evidente tenendo conto della pluralità dei suoi campi di interesse: dalla fondazione e direzione di riviste letterarie, alla direzione di collane editoriali, alla presidenza di premi letterari, all’appartenenza o direzione di importanti istituzioni culturali: attività, queste, che fanno di Francesco Flora una delle figure che meglio esemplifica il rapporto degli intellettuali italiani del Novecento con il mondo dei libri e con il processo della loro produzione/circolazione. Ostile al Fascismo e sempre fedele alle proprie idee, l’intellettuale di Colle Sannita rifiutò la cattedra universitaria e un posto all’Accademia d’Italia pur di non prendere la tessera del PNF, intervenendo anche nel dibattito culturale e politico dalle pagine de “L’Unità”, per riflettere e far riflettere sulla crisi della circolazione dei libri e sulla mancanza della libertà di stampa. Alle pesanti vessazioni di cui talvolta fu oggetto, egli reagì sempre con coraggio e fermezza, attraverso una coerenza di parole e di azioni che derivavano proprio dal suo riconoscere, nel ruolo dell’intellettuale, una profonda responsabilità morale e civile. Da qui l’importanza che la “parola” rivestì per Francesco Flora, pensata come mezzo attraverso cui esprimere articolatamente un pensiero dando nome alle cose e verbo all’idea e, di conseguenza, partecipare in modo consapevole alla storia del mondo. In accordo a questo spirito, nel 1952 Francesco Flora fondò e diresse la collana SAGGI DI VARIA UMANITA’, esempi di saggistica che, per il metodo adottato e l’argomento scelto, soddisfecero le richieste più esigenti e sentite del lettore contemporaneo; una collana, dunque, senza preclusioni ideologiche e aperta a “voci” diverse purché ugualmente significative per le novità di proposte e di procedimenti. A tale proposito, lo stesso Flora, nella sua introduzione/premessa al primo volume della collana “Scrittori italiani contemporanei”, concludendo il suo discorso sull’Umanesimo dichiarò che […] l’umanesimo della lettera investe la nobiltà dello spirito: e significa responsabilità e libertà della mente per la libertà di azione, sia nell’affermazione che nel fertile dubbio. Il “vero” filologico e storico ricercato nella lettera si dice humanitas perché impegna tutto come l’uomo: e l’humanitas è essenzialmente parola. A quasi cinquant’anni dalla sua morte (Bologna, 17 settembre 1962), in un presente così segnato dall’ indeterminatezza della libertà di parola e di azione, il suo messaggio non può che apparire, dunque, quanto mai attuale e contemporaneo. Francesco Flora, condensando la prosa morale, filosofica e critica di Benedetto Croce con gli stimoli derivanti dalle letterature europee d’avanguardia, riuscì a dare vita ad una “poetica della parola” sempre attenta a porre in primo piano l’amore per la cultura e gli aspetti più “urgenti” del vivere contemporaneo. E questa corrispondenza puntuale tra pensieri e parole è possibile ritrovarla nell’archivio Francesco Flora, conservato presso il dipartimento di Filologia dell’Università della Calabria e dichiarato di notevole interesse storico dalla Soprintendenza ai beni archivistici per la Calabria; una documentazione che, con i suoi 134 fascicoli consapevolmente suddivisi in categorie, mira a disegnare il profilo di un uomo “impegnato” e grande nella cultura e nelle competenze. Di notevole interesse risulta senza dubbio l’analisi della documentazione epistolare: da segnalare il carteggio mondadoriano, che copre l’arco cronologico 1923-1956 e costituisce una valida testimonianza della preziosa collaborazione che per molti anni unì il Flora a casa Mondadori, per la quale diresse la storica e prestigiosa collana dei “Classici Italiani”; ma anche la corrispondenza con la sorella Clelia Lanzillotta, con la quale il letterato era molto legato non solo da un profondo affetto, ma anche da uno stretto rapporto di tipo professionale: Clelia, infatti, si occupava spesso di gestire la corrispondenza del fratello, rispondendo ad alcune lettere che gli venivano indirizzate. Non ultimo il carteggio epistolare prodotto tra i primi anni Venti e il 1962, che abbraccia ampia parte dell’intellettualità italiana novecentesca: critici letterari, poeti, scrittori, editori, esponenti della resistenza anti-fascista nel periodo fra le due guerre, quindi della vita politica post-bellica, a testimonianza di una eccezionale rete di relazioni intellettuali; e ancora, le numerose lettere di tutti quei giovani che in quegli anni si affacciavano al mondo della critica, i quali, prendendo l’intellettuale di Colle Sannita come modello, a lui chiedevano consigli e chiarimenti. Una lezione, quindi, quella di Francesco Flora, assolutamente attuale e da cui è necessario trarre insegnamento per affrontare i problemi contemporanei con lucidità di analisi e con coerenza di idee.

lunedì 9 settembre 2013

Pomeriggio a casa Mastronunzio

Cronaca di un pomeriggio nello studio dell’artista beneventano Antonio Mastronunzio. Un viaggio artistico nella sua casa-laboratorio in una cornice di colori, odori e suggestioni. Antonio Mastronunzio è un pittore e scultore sannita nato il 29 febbraio del 1956. Dopo gli studi al liceo artistico di Benevento ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Firenze e di Napoli. Ha all’attivo numerose mostre sul territorio nazionale, Bologna, Torino, Firenze, Napoli, Viareggio (per citare le principali), una ‘personale’ nella Repubblica Domenicana e nel 1990 ha esposto alla Galerie Jesse di Bielefed in Germania. L’artista, inoltre, nel Centro Gallerie Martani d’Arte Moderna - Ca’ La Ghironda - di Bologna ha allestito un’esposizione permanente di 90 sculture in pietra di Lecce e bronzo che danno vita a L’isola di Pasqua. Giuseppe Pittàno in una interessante recensione afferma che incontrare Mastronunzio è uno di quei doni che la vita offre raramente (...) pochi minuti per scoprire sotto quella scorza semplice e bonaria l’anima di un delicato poeta. Il nostro incontro ha inizio alle 17,00 di un pomeriggio feriale. Raggiungiamo il domicilio 7 di via San Cosimo dove l’artista ci aspetta per mostrarci i suoi lavori e forse dipingere per noi una tela. Raggiungere “Casa Mastronunzio” può essere considerato propedeutico all’incontro con l’artista. Spalle a Port’Arsa, con a sinistra il Ponte Leproso, passata la cappella dei santi Cosma e Damiano, si costeggia la recinzione della Stazione Ferroviaria “Appia”. In questo percorso dalle suggestioni contrastanti si è proiettati con immediatezza fuori dalla città in un contesto che parla di un’appena perduta ruralità di cui l’abitazione del pittore e scultore beneventano ne è una significativa testimonianza. In realtà “Casa Mastronunzio” dall’ingresso al cortile fino al ‘nucleo domestico’ rappresenta un introduzione verso una conquista emotiva della sua arte. L’artista ci accoglie con modi molto cortesi ed il suo saluto scandito da ‘baci familiari’ chiarisce subito il clima che si respirerà di lì in poi. Un uomo di 53 anni di piccola statura, capelli ingrigiti ordinatamente scomposti; un paio di pantaloni tracciati da tempere multicolori e polveri di gesso e marmo e camicie or ora cambiate in base alla temperatura, alla comodità, all’umore. Il primo incontro con l’artista è consuetudine svolgersi nel cortile d’ingresso di quella sorta di fattoria dell’arte. Come accennato, il sito ricorda una piccola casa rurale ora adibita ad abitazione, laboratorio, esposizione e deposito d’arte. Una sensazione di disorientamento accompagna i primi istanti. La concreta difficoltà nel distinguere e collocare lo spazio circostante crea disturbo ed eccitazione. Una ecletticità di forme ed essenze che non si esaurisce nelle sculture prima in pietra, poi in marmo; nelle terrecotte, nei gessi, nei ‘siliconi’; ancora nei cocci, nei sassi, nelle ‘tavole’. Questa ricchezza di manufatti più o meno attentamente ‘lavorati’ non si dispone ad arredare lo spazio, tantomeno a riempirlo. Alberi incisi, pareti affrescate, selciati dipinti, recinzioni ornate sono coinvolti in questo dialogo di forme contribuendo ad una sorta di scomposizione armonica dell’ambiente. Un’organizzazione spaziale barocchista che abusa di metafore e allegorie, figure che indirizzano ad un’intuizione che la ragione ed i sensi non potrebbero riconoscere e percepire. Molti soggetti ricorrenti animano le forme che dal linguaggio lirico dei profili approda talvolta nella provocazione con picchi di brutale malinconia. Valutare il grado di intenzione è cosa difficile a farsi. Di certo questo caos disposto (ma non organizzato) si intensifica e abitua quanti avanzeranno fino all’ingresso per l’abitazione. Un’assuefazione che non sgonfia le suggestioni perché, è tra le mura della dimora che sculture e statue danno spazio ai colori delle tele, tavole e affreschi. L’alloggio dell’artista si limita ad un’essenzialità domestica. Due piccole camere e poco altro costituiscono lo spazio abitativo. Infissi, pareti e soffitto sono distinguibili con difficoltà in quanto, laddove non sono ornati, dipinti o incisi, tele e piccole terrecotte si appoggiano ad essi. Cosa difficile risulterebbe l’apertura di porte e finestre senza l’aiuto (ed il permesso) del maestro. Questa apparente ed invadente confusione non sembra condizionare l’artista che con sorprendente lucidità dà prova di poter percepire qualsiasi spostamento o manomissione. Un evidente disordine e trascuratezza interessano altri aspetti. Mastronunzio è un accanito fumatore e se l’odore intenso di colori e polveri fa parte delle condizioni per la permanenza nella sua dimora, mozziconi e sigarette costantemente fumanti accompagneranno l’intera visita. Risulta evidente che entrare nella casa studio di Antonio Mastronunzio è quasi un’esperienza mistica. Dopo cinquant’anni di prolifica attività, l’artista sta vivendo ora quella che egli stesso ha definisce “quarta maniera”, fatta di intuizioni ed evocazioni suggestive. Mastronunzio dà vita alle sue creazioni lasciandosi commuovere da esse, vivendole e reinterpretandole secondo il suo gusto squisitamente surrealista. Le sue composizioni non ricalcano pedissequamente la realtà - in accordo ad un gusto realista che spesso e volentieri tende a nascondere ciò che è davvero importante mettere in risalto - ma si muovono da essa, nel senso che ogni paesaggio, ogni ritratto, verrà spogliato di tutte le caratterizzazioni oggettive e quotidiane, per divenire fulcro dell’esperienza dell’artista stesso, il quale riesce a coglierne le impressioni immediate pur lasciando intatto il senso profondo di realtà. Entrare direttamente in contatto con le opere dell’artista beneventano implica per il fruitore/osservatore un silenzio reverenziale, nel quale poter meglio tentare di comprenderne i motivi e le suggestioni. Nel domicilio di Antonio Mastronunzio non si troverà un solo angolo che non sia intriso di arte; e questo perché l’artista ha fatto della sua vita un continuo dialogo con essa. Meduse sognanti lasciano il passo a Veneri anti-conformiste. Equilibri formali raffaelleschi si alternano ad impianti scenici botticelliani fino a scorgere qualche punta espressionista. Antonio Mastronunzio, partendo dalla lezione metafisica dei De Chirico, radicalizza il percorso surrealista esprimendo il reale funzionamento “dell’automatismo emotivo”. Una manifestazione onirica per accedere a ciò che sta oltre il visibile. L’arte di Mastronunzio non si pone, però, con intenzioni polemiche o di ribellione. La si può scoprire, talvolta, in veste provocatoria (come ad esempio nella raffigurazione di un “ultima cena” con 14 personaggi dalla dubbia provenienza) ma quasi sempre come una chiave di lettura intima del conoscitivo dell’altra realtà. Colli e figure allungate, che ad una prima e superficiale considerazione rimandano a Modigliani, si arricchiscono di un ‘manierismo’ lirico e fascinoso. La visione delle sue “veneri” suggerisce un sentimento di bellezza ideale di Botticelliana memoria. Mastronunzio, dal canto suo, distacca le figure dal mondo reale senza alcuna opposizione e la bellezza corporea è sostituita da un’idea di bellezza dell’anima in armonia con gli elementi della natura e del cosmo. Lo stesso spazio universale che ispira le sue “visioni” prende vita nelle gradazioni e nelle intensificazioni delle colorazioni. Gialli, verdi, blu, aranci vengono poeticamente interpretati ma se l’istinto lo richiede una quasi idillica aggressività definisce tonalità scevre di alcuna mediazione cromatica. Una bellezza sinuosa che anche nei ritratti maschili (inferiori per numero a quelli del sesso opposto) presenta un fascino “femminile” quasi come un’associazione emotiva tra bellezza ideale e femminilità. “Casa Mastronunzio” un’alcova surreale. Luogo di incontri intimi con l’arte che nel caso dell’artista beneventano non fa abusare del lemma. Antonio Mastronunzio gode di una discreta notorietà che attende di emanciparsi per una consacrazione che stenta a giungere al definitivo riconoscimento solo a causa della incontrollabile irrequietezza che è propria di alcune vite il cui spirito è talvolta poco incline a compromessi più o meno edificanti. Ci accorgiamo che ormai la luce del giorno ha fatto spazio ai lampioni dell’immediata periferia beneventana e dopo circa quattro ore di presenza in “Casa Mastronunzio” è arrivato il momento di salutare l’artista. Ci allontaniamo con un ritratto che in quel pomeriggio stesso ha dipinto per noi ed invitandoci a ritornare ogni qualvolta ne sentissimo l’esigenza ci ringrazia perché attraverso la composizione di quella stessa pittura gli è stata offerta la possibilità di emozionarsi. Soltanto la nostalgia che caratterizza la sua separazione dalla tela chiarisce la misura ed il valore di quella emotività tutta imperniata sul tempo dell’azione pittorica, un momento di vissuto tra le parentesi della vita domestica e sociale.

giovedì 29 agosto 2013

Morcone abbraccia Massimo Troisi

Di lui si è detto essere il comico dei sentimenti, l'erede ultimo del teatro napoletano, il figlio d'arte di Eduardo, un 'semplice' comico dialettale e tante altre definizioni. Tutti ricordano il suo "Postino" ed in tanti hanno riso ammirandolo nelle vesti di Maria al grido ridondante della "Annunciazione! Annunciazione!". Per me Massimo Troisi rappresenta un piccolo grande tassello nei doni che una esperienza di vita può offrire. Non credo si tratti di idolatria ma di una vera e propria passione, di quelle dalle quali prendi ed in parte dai. È strano notare come quelli che amano Troisi, prima ancora della sua produzione cinematografica, ricordano e raccontano le sue interviste, gli interventi pubblici e in tv, gli aforismi, gli sguardi, i sorrisi malinconici. Quello che ho sempre amato di lui è il suo disamore per la retorica, il ruolo ed il rispetto dato alla donna (in tempi non ancora tanto maturi), l'ostinazione a parlare sempre e comunque col suo accento dialettale ("...se parlate toscano io vi devo capire e allora dovete capire pure il Napoletano"), i suoi punti di vista sempre trasversali che tendevano a dare visibilità anche a quelle parti marginali (Giuda è un pover'uomo; Noè un bigotto; il devoto è un egoista; etc.), il poetismo della sua malinconia. Massimo Troisi è nato a San Giorgio a Cremano cittadina dalla quale ha portato con sé modi, espressioni, ricordi ed un napoletano tutto indigeno. Dal 1994 è ritornato per sempre nel suo paese e nel cimitero lo ricorda un sobrio e intenso monumento funebre. Il legame che c'è fra Troisi e la sua terra è indissolubile, non fosse altro che lì vi è nato e cresciuto. Una terra che non manca di tradire come quando si dedicò al teatro contro l'alternativa del "posto" raccomandato o come quando dovette emigrare a Roma (perché a Napoli un attore può nascere ma non lavorare) e chissà in quante altre occasioni. L'ultima in ordine temporale riguarda il "Premio Troisi". Dopo i fasti dei primi anni - la prima edizione risale al 1997 - sembra che non si riesca (non si sappia?) a realizzare un evento stabile nel tempo capace di celebrare/rispettare la memoria di uno dei più grandi sangiorgesi dei nostri tempi (non l'unico uomo di spettacolo considerata la grande personalità di Alghiero Noschese). La conseguenza di tutto ciò è la fine del premio ritenuto troppo costoso e troppo al di sopra delle possibilità di una cittadina come quella pre-vesuviana. Tante sono le domande che sorgono ma una riflessione vince su tutte: cosa penserebbe Massimo di queste cose? come vorrebbe essere celebrato? Io una mia personalissima idea ce l'ho e quella del festival, della "manifestazione" sarebbe solo l'ultima delle iniziative. Quanto vedrei bene l'associazione del nome di Troisi ad iniziative sociali contro l'emarginazione, di formazione contro ogni forma di convenzionalismo, a tutela della bellezza, contro la mala-politica. Ma questo resta sempre un parere personale. Rimane il fatto che Massimo Troisi è patrimonio di tutti quelli che hanno incontrato un aspetto della sua bellezza e non risulti strano se un bellissimo paese della provincia beneventana (a confine col Molise, così come si affrettano a ricordare i mezzi di comunicazione) decida di ospitare una rassegna dedicata all'attore, regista e sceneggiatore italiano. È Morcone, infatti, a celebrare l'eredità di Troisi con una manifestazione partita alla fine del maggio scorso e continuata dal 26 al 29 agosto. Un comune già noto per alcune iniziative culturali e sociali affascinanti quali la fondazione della scuola civica di musica"Accademia Murgantina" ed il premio "Sergei Rachmaninov". Ringraziando Morcone per aver rimediato all'abbandono napoletano, ci godiamo questo "Troisi Festival" in attesa di offrire alle nuove generazioni una traccia concreta dell'esempio di grandi personaggi del passato, senza retorica e all'insegna della "qualità".

venerdì 23 agosto 2013

IBIDEM a Nettuno

“Ibidem – Astrazioni necessarie” e le fotografie di Antonio Volpone al NettunoPhotoFestival. 22 agosto 2013 alle ore 15.22.
Dopo il successo del Festival di Corigliano Calabro si rinnova l’appuntamento con Antonio Volpone. Il Sannio, grazie alle fotografie dell’artista beneventano, sarà presentato al NettunoPhotoFestival. Si terrà sabato 24 Agosto 2013 alle ore 18.30 nella splendida cornice del cinquecentesco Forte Sangallo di Nettuno la presentazione del volume “IBIDEM – Astrazioni necessarie” di Antonio Volpone edito da IDEAS Edizioni. La presentazione ufficiale al pubblico consterà dell’intervento dell’Autore, di Enzo Carli - Docente di fotografia presso l’Università di Urbino, di Mario De Tommasi – demologo e di Luigi Giova – Conservatore dei Beni Culturali. Durante la serata sarà proiettato il video “Le distorsioni necessarie” regia di Antonio Pizzicato con i testi di Sandro Pedicini e le musiche di Alessandro Tedesco e Umberto Aucone. L’evento è inserito all’interno del PhotoFestival “Attraverso le Pieghe del Tempo” conosciuto al grande pubblico anche come NettunoPhotoFestival. Rassegna annuale, giunta alla terza edizione e ideata e curata dall’Associazione Culturale laziale “Occhio dell’Arte” nella persona della sua Presidente Lisa Bernardini, che fra i suoi scopi ha quello di promuovere eventi artistici e culturali connessi ad opere di solidarietà sociale. La rassegna prevede diverse occasioni di incontro e di confronto fra fotografia, poesia e musica in un programma che è stato inaugurato il 20 agosto e terminerà il 1° settembre. Il coordinamento scientifico dell’iniziativa e’ affidato da questa edizione 2013 al Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Universita’ La Sapienza di Roma. Anche quest’anno tante ed importanti le mostre visitabili e i fotografi premiati: Maurizio Galimberti, Luigi Erba, Tony Gentile, Diego Mormorio. Da segnalare all’interno del Festival, una importantissima lettura portfoli. Sabato 31 Agosto la rivista nazionale FOTOGRAFIA REFLEX, con la collaborazione di Occhio dell'Arte, promuove infatti REFLEX DAY, una lettura portfoli che si svolgerà nell’arco dell’intera giornata. I lettori saranno, per conto della Rivista, il Direttore GIULIO FORTI; Roberto Mutti (LA REPUBBLICA), Luigi Erba (Fotografo e critico), Santo Eduardo Di Miceli (Fotografo e docente di fotografia). Membri onorari della Giuria il superospite straniero di quest’anno, il pluripremiato fotografo spagnolo Pep Escoda (Curatore SCANN OFF – Festival Tarragona), Tony Gentile (STAFF REUTERS - lettore portfolio solo nella fascia oraria 11.00-12.30) e Vittorio Graziano (fotografo e Direttore Artistico MED PHOTO FEST).Le stesse persone faranno parte di una giuria presieduta dal Maestro Franco Fontana che assegnerà tre premi ai migliori portfoli. Altre iniziative previste durante il festival: conferenze ed incontri culturali,spettacoli serali tra attualità e contaminazioni di linguaggi artistici diversi, proiezioni, workshop, presentazione di numerosissimi libri. La Direzione Artistica generale ed il coordinamento del NettunoPhotoFestival sono ad opera esclusiva di Lisa Bernardini, che oltre ad essere fotografa e Presidente dell'Occhio dell'Arte è ideatrice di questa Rassegna mentre la Direzione Artistica delle mostre d'Autore è affidata al critico fotografico italiano Roberto Mutti. CATALOGO PDF del PhotoFestival "Attraverso le Pieghe del Tempo" EDIZIONE 2013 http://www.occhiodellarte.org/documenti/c26ac85b736089b802dbf4c266571438.pdf Sabato 24 Agosto - Sala Sigilli “IBIDEM” – Astrazioni necessarie di Antonio Volpone Inizio: ore 18.30 Interventi: Enzo Carli - Docente di fotografia presso l’Università di Urbino Mario De Tommasi - Demologo Luigi Giova – Conservatore Beni Culturali Antonio Volpone - Autore Con proiezione video “Le distorsioni necessarie” di Antonio Pizzicato con musiche di Alessandro Tedesco e Umberto Aucone. La vendita del libro di Antonio Volpone e l’intero progetto IBIDEM nascono per finanziare gratuitamente corsi di fotografia per persone non abili. Con il patrocinio morale di: Provincia di Benevento, Comune di Pietrelcina, Comune di Paduli, Comune di Apice, Comune di Torrecuso, Comune di Guardia Sanframondi, Comune di Benevento

giovedì 22 agosto 2013

Viaggio nella provincia: San Bartolomeo in Galdo

San Bartolomeo in Galdo per quanti come me risiedono tra Benevento e la provincia a ridosso della città rappresenta il baluardo estremo, il paese incastonato nel fortore a guardia del territorio. Fino a qualche mese fa non avevo mai visitato questo comune e non mi era capitato neanche di passarci o conoscere qualcuno del posto. Non che il paese non mi fosse noto, ma la distanza e la scarsa accessibilità non hanno mai necessitato una visita. Quanti mi parlavano di San Bartolomeo hanno sempre sottolineato che "...il paese è grande" e che, soprattutto, "su molte cose sono molto più organizzati dei comuni più vicini al capoluogo". Altri motivi di menzione erano legati alle eternamente tribolanti vicende dell'ospedale e alla non meno complicata storia della "fortorina", arteria stradale che da oltre 50 anni è annunciata e attesa come elemento di modernità (e che, probabilmente, è stata cominciata solo grazie alla notorietà raggiunta da Pietrelcina intorno all'anno 2000). Raggiungere San Bartolomeo è una esperienza visiva ed emotiva. Partendo da Benevento e volendo percorrere tutto il (pre) fortore si ha un'idea completa di questo territorio, delle sue bellezze, delle sue emergenze. Superata Pietrelcina ci sono due possibilità: attraversare Pesco Sannita, tagliare per la frazione di Monteleone e superare San Marco dei Cavoti, oppure costeggiare il comune di Pago Veiano, scendere a Calise ed arrampicarsi fin dopo Molinara. Da qui in poi, escludendo le varie scorciatoie che i vari esperti della zona giureranno di conoscere, il percorso si congiunge. La prima meta è una meta dell'immaginario per molti "cittadini": Casone Cocca, il 'valico' fortorino a partire dal quale si incomincia ad essere accompagnati dalla costante presenza delle più o meno giganti pale eoliche. Arrivare a Foiano non è molto agevole, sia per i continui rallentamenti obbligati dalle frequenti curve che per la qualità dell'asfalto, fermo restando che risulta davvero difficile trovare un traffico sostenuto e c'è tutto il tempo per godersi gli scorci offerti soprattutto dal lato destro della strada. Foiano di Val Fortore è praticamente attraversato in mezzo ed il campo sportivo chiude il confine del paese proiettando la strada verso San Bartolomeo. Qui ritorna una presenza costante in tutto il percorso da San Marco: il bosco. Sembra, infatti, che l'origine del nome del più importante comune del fortore vi sia, di fianco al rimando al culto del patrono beneventano, il toponimo di radice germanica wald (foresta). Il bosco accompagna il viaggio ed è già alle spalle una volta raggiunto il bivio Ponte Sette Luci. Sulla sinistra pochi km separano da Baselice ed un'ultima salita fitta di curvoni conduce fino ai circa 600 mt di San Bartolomeo in Galgo. Dicevo in apertura che queste righe sono ispirate da una esperienza personale, quindi "vera" quanto può essere legittima la soggettività. Arrivati a San Bartolomeo ci si rende conto che non esiste un vero e proprio "ingresso" e risalta evidente la divisione in due dell'abitato con il centro storico molto ampio della zona di più moderna urbanizzazione. Il comune non appare molto abitato a dispetto della grandezza e i poco più di 5000 abitanti (numero comunque notevole per un comune del beneventano) da solo basta a chiarire molto del declino del nostro territorio nell'ultimo sessantennio. San Bartolomeo solo negli anni '50 superava le 10.000 unità (regressione demografica che non ha risparmiato alcun comune sannita). A dispetto delle difficoltà legate ad una innegabile marginalità logistica (la stazione più vicina si trova in un'altra provincia e l'unico bus per/da Benevento ha 2 corse giornaliere solo nei giorni feriali), il comune è dotato di numerosi servizi (tutti i gradi scolastici compreso un liceo Scientifico ed una "Università Popolare del Fortore" ), un ufficio postale attivo con frequenza giornaliera (spesso è un lusso anche questo nella nostra provincia), farmacia, cinema, biblioteca, un'area Wi-Fi free e tanti altri che non ho avuto modo di riscontrare nella mia breve frequentazione. San Bartolomeo si presenta ai miei occhi una cittadina pulita e curata. Con frequenza ho ammirato delle persone (operai comunali?) intenti nel riordinare fioriere ed aiuole. Il centro storico - in parte carrabile solo dai residenti e dai proprietari dei numerosi negozi - si sviluppa lungo via L. Bianchi e il Corso Roma interrotte solo dalle piazze Municipio e G. Garibaldi. Altre stradine e piazzette più appartate completano il centro che si spegne lungo l'ampia via P. Circelli dove di tanto in tanto sosta qualche banco di verdure e prodotti delle campagne limitrofe. Poco lontano da piazza Garibaldi, il venerdì mattina, non manca l'allestimento di un piccolo mercato del pesce. Pesce che non manca neanche nel menù di alcuni ristoranti del posto (di cui uno molto noto nella provincia). Il mio interesse per San Bartolomeo è soprattutto socio-antropologico e gli incontri, le immagini e i discorsi rubati nelle stradine mi parlano di un paese con una forte connotazione comunitaria ed identitaria. Gli abitanti appaiono discreti sebbene molto cordiali se invitati al dialogo. Dalla scuola alla piazza si denota una costante propensione e ricerca della condivisione che contribuisce all'instaurazione di un clima familiare anche agli occhi dell'osservatore. Le difficoltà non mancano e i tanti portoni chiusi, le finestre sbarrate, i pochissimi giovani tra i 20 e i 40 anni e i numerosi anziani che passeggiano in piazza, sono il manifesto delle sconfitte del nostro territorio e della voglia/consapevolezza di dover andar via. Le opportunità che restano sono tutte figlie del passato e delle ricchezze di madre natura. San Bartolomeo, al di là della curiosità di aver dato i natali alla madre di Rocky Marciano, si lustra di aver visto nascere la personalità di Leonardo Bianchi, del maestro Egidio Cirelli e di altri uomini con una importante storia umana e professionale. Non mancano luoghi e manufatti di interesse storico: la Chiesa di San Bartolomeo con il bel rosone, i due portali del XV sec. e la nuova porta di bronzo; la seicentesca Santa Maria degli Angeli con annesso convento dei frati minori; il palazzo Catalano e il palazzo Martini. Probabilmente troppo poco per pensare/sperare in un turismo appositamente dedicato. Non ho tanto tempo a disposizione e, incuriosito da un murales, faccio qualche domanda in giro e scopro una storia di protesta e rivendicazioni che mi riporta fino al 1957. Una delle tante vicende che dovrebbero echeggiare nei nostri programmi scolastici e che parla di un gruppo di coraggiosi che nel giorno della Domenica delle Palme decisero di urlare le proprie disgrazie fin sotto il Palazzo di Roma capitale. Fu chiamata "Marcia della fame" sebbene s'interruppe con la forza a pochi km dal paese. Un gesto incompiuto raccontato diversi anni dopo da Carrasco e dagli Inti-Illimani attraverso un murales e al quale dedicò un documentario il grande Ugo Gregoretti. Dal 2010 è stata definitivamente riscoperta questa pagina di storia ed ogni anno un murales celebra un tema ricorrente. Anche alla luce di quest'ultima scoperta, mi convinco sempre più che la più grande risorsa di e per San Bartolomeo siano i suoi cittadini e la loro capacità di reinventare il proprio futuro prossimo. Tutto ciò all'interno di una dimensione identitaria con valori sui quali investire evitando il più possibile una folclorizzazione degli stessi. Lascio San Bartolomeo in un giorno speciale per i suoi abitanti. Non vi è strada non occupata dai residenti della zona intenti a colorare con petali e ornamenti l'asfalto di viali più o meno principali. È Il Corpus Domini ed i sanbartolomeani si preparano a vivere un nuovo rito collettivo.

venerdì 16 agosto 2013

Festa del Grano di Foglianise

I nostri comuni si arricchiscono di espressioni e linguaggi che interpretano e traducono segni identitari che si formano per evolversi durante il corso della storia. È raro trovare una festa patronale, un rito comunitario che non affondi le proprie motivazioni iniziali nel ciclo delle stagioni. Le stesse celebrazioni cristiane, se guardate con attenzione, ci offrono una lettura precisa ed ordinata di pratiche che, nella propiziazione e nel ringraziamento per uno sperato benessere, si sono radicate nei costumi dei gruppi sociali. Dal solstizio d'estate di San Giovanni Battista fino a quello invernale che scandisce il Natale i popoli hanno sempre fatto i conti con la dipendenza dai frutti del creato, ieri (con i raccolti) come oggi (con gli approvvigionamenti energetici). Un periodo di grande concentrazione di rituali di ringraziamento è quello estivo con il mese di agosto a fare da protagonista. È, infatti, in queste settimane che si concentrano numerosi rituali legati al ciclo del grano che, nella maggioranza dei casi, prevedevano (e in alcuni casi prevedono tuttora) offerte "dell'oro della terra" al santo o alla madonna di turno. Il nostro Sannio non è escluso da questi usi e le Madonne delle Grazie, della Libera, del Carmine, della Strada sono un esempio relativamente noto. Questo discorso ci conduce inevitabilmente alle "feste del grano" diffuse in molti centri in particolare del centro-sud Italia. Questi moderni eventi tradizionali, sebbene collegati a pratiche diffuse in tantissime comunità rurali (ovvero, l'offerta di grano al "santo"), in alcuni territori sono sopravvissuti al tempo ed hanno subito delle specifiche evoluzioni proprie di ogni esperienza di tradizione. La manifestazione beneventana più nota (insignita anche del riconoscimento della Regione Campania quale "grande evento di rilevanza nazionale ed internazionale") è sicuramente quella di Foglianise, sebbene tuttora persistono iniziative simili anche a San Marco dei Cavoti, a San Lorenzo Maggiore e a Faicchio. Il "rito del grano" di Foglianise, almeno nella sua motivazione moderna (dal 1700 riceviamo le prime documentazioni), è collegato al culto di San Rocco, santo protettore dalle epidemie. L'origine di questo costume si fa risalire a diversi culti (tra i quali quello della dea "Fortuna Folianensis") ed in maniera molto generica si può collocare nelle numerose manifestazioni pagane inserite in quelle che i romani chiamavano "Feriae Augusti". Pariteticamente ad altre esperienze, le manifestazioni di ringraziamento e devozione riguardavano il trasporto di covoni di grano trainati da buoi o altri animali di fatica. Il collegamento diretto di questa tradizione con il culto di San Rocco è presumibile sia cominciato con l'arrivo di una reliquia del Santo di Montpellier nel 1727, momento storico che seguì a decenni in cui si erano diffuse molte pestilenze nella penisola italiana. La venerazione a San Rocco quale protettore dalle epidemie si è estesa fino al '900, secolo in cui i cittadini di Foglianise si sono rivolti all'intercessione del Santo anche solo come tentativo di prevenzione (così come accadde in occasione dell'ultima epidemia di colera che colpì Barcellona, Cagliari, Bari, Palermo e Napoli nel 1973). A Foglianise più che in altre comunità le manifestazioni votive hanno assunto delle caratteristiche indigene che hanno evoluto linguaggi e motivazioni iniziali. I carri di grano a partire dalla seconda metà del 1800 cominciarono ad arricchirsi di ghirlande di spighe, intrecci e ornamenti composti da fili di grano fino a trasportare delle vere opere d'arte che in tempi recenti mirano ad omaggiare a turno le diverse regioni italiane. Il 2013 è stato l'anno della Calabria e tra le rappresentazioni più suggestive vi erano i famosi "Bronzi di Riace" che, scortati dal gruppo folk "Fortuna Folianensis", dalla banda musicale di Torrecuso e dalle donne del "Gruppo Ceste", hanno ricevuto la benedizione di don Nicola all'ombra della statua di San Rocco vestito a festa e salutato le strade di Foglianise. Io sono da poco rientrato col gruppo di ricerca di IDEAS che sta lavorando ad un documentario su questa tradizione e mi restano in testa immagini, occhi lucidi di devozione, sorrisi della festa e penso alle ulteriori opportunità che potrebbero offrire al nostro territorio i linguaggi della nostra identità. Foto della ricercatrice Maria Scarinzi

giovedì 15 agosto 2013

Ferragosto, le "vacanze di Augusto"

Dal latino Feriae Augusti (vacanze di Augusto) è una festa di origini pagane evolutasi con l'arrivo del cristianesimo. In coincidenza con l'intitolazione ad Augusto del sesto mese del calendario romano, il precedente rituale della Consualia (celebrante l'immagazzinamento dei raccolti) si evolvette in periodo dell'anno in cui celebrare numerose ricorrenze legate ai culti pagani. Vertumno, Opi, Opiconsiva, Giano, Venere, Diana si veneravano per la fertilità dei campi ed erano tra le rare occasioni in cui ai diversi ceti sociali venivano concessi alcune insperate libertà (analogamente al periodo carnevalesco). I culti femminili, di cui Diana offriva le caratteristiche più "modellabili", si prestavano agevolmente ad interpretare le nuove prerogative dei dogmi cristiani e degli attributi della Madonna. I riti collettivi e gli eccessi delle Ferie Augusti raggiungevano il loro massimo il 15 del mese e solo con il passare di molti secoli la Chiesa riuscì a trasformare la festività nella celebrazione dell'Assunzione in cielo di Maria Vergine. La celebrazione si estese a tutto l'Impero Romano (d'Oriente) intorno all'anno 1000 sotto l'imperatore Maurizio. Il dogma secondo cui la Vergine sarebbe stata assunta in cielo a Ferragosto è stato ufficializzato solo nel 1950 da papa Pio XII. Sono numerose le località in cui si celebra l'Assunta. Palermo, Genova, Milano, Sassari allestiscono numerose processioni e celebrazioni eucaristiche. Tutt'oggi questa giornata non ha smarrito la sua dimensione identitaria mantenendo quella connotazione "feriale" propria del mese di Augusto. Noi tra mare, pic-nic e devozione per l'Assunta continuiamo a celebrare la nostra festa di mezza estate.

mercoledì 14 agosto 2013

Casalduni e Pontelandolfo 14 agosto 1861

Il 14 agosto per gli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo (e per molti meridionali) è un giorno dalla triste memoria. Sono state scritte tante parole che hanno tentato di condannare, di difendere, di commemorare, di oscurare dei fatti storici dai tragici risvolti (comunque li si voglia leggere). Il dato certo è che quella del risorgimento italiano rimane tuttora una storia negata. Contorta da molti dei suoi carnefici e oscurata alle memoria dei suoi eredi. Fedele ad un approccio meramente fotografico e scientifico alla storia, voglio ricordare quel giorno attraverso le parole di Mario D'Agostino dedicate a "La reazione borbonica in provincia di Benevento" (Fratelli Conte Editori). Il suo interesse per nulla animato da sentimentalismi e revisionismi, offre una lettura lucida e cronistica di quei fatti. "All'alba del giorno 14 agosto il maggiore Carlo Melegari entrò in Casalduni alla testa dei suoi uomini. Qui, trovato il paese deserto, diede ordine di incendiare le case dei reazionari, a cominciare da quella del sindaco Luigi Orsini. Solo alcuni malcapitati che non avevano fatto in tempo a fuggire, o non avevano potuto, vennero freddati dai bersaglieri a colpi di fucile. Fu questa la sorte che toccò a Lorenzo d'Urso, al vecchio arciprete e ad un malato che stava tentando di alzarsi dal suo letto. Quella stessa mattina, dopo che la truppa regolare aveva lasciato il paese, vi entrò Achille Iacobelli alla testa di una colonna di guardie nazionali di San Lupo e Guardia Sanframondi, seguita da sette carri. Una parte di questi uomini, pratica dei luoghi, passando dalla porta del giardino, si introdusse nella casa di Giovanni, Giuseppe e Saverio Mazzaccara (quest'ultimo capitano della guardia nazionale di Casalduni) assentatisi dal paese per paura di essere presi di mira dai reazionari. Qui fecero man bassa di gioielli, argenteria, vestiario e denaro per un valore complessivo di circa 3788 ducati e, nell'andar via, incendiarono due fienili situati poco lontano dall'abitazione provocando un ulteriore danno di 350 ducati. Prima di lasciare Casalduni, infine, rubarono anche del grano a Giuseppe Romano per un valore di 85 ducati. Ben più grave fu il bilancio della spedizione punitiva di Pontelandolfo. Qui, quando all'alba del 14 agosto giunsero i soldati del colonnello Negri e gli uomini di De Marco, Cosimo Giordano che si era accampato con la sua banda nei pressi dell'abitato fece sparare solo qualche colpo prima di ordinare la ritirata. Fu così che tutti gli abitanti vennero sorpresi nel sonno (tranne, naturalmente, quelli più compromessi che si erano allontanati per tempo). E fu una vera carneficina. Ben 13 persone, infatti, senza distinzione di sesso e di età, caddero sotto i colpi dei bersaglieri mentre l'intero paese veniva dato alle fiamme, fatta eccezione per le case dei liberali (...) e per la torre medioevale (...) L'episodio, per la verità, destò qualche perplessità anche tra le fila degli stessi piemontesi "... Gli abitanti di questo villaggio - scriveva in quei giorni il sottotenente Gaetano Negri a suo padre - commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu meno barbara".

martedì 13 agosto 2013

Anno Viglioniano

In questo 2013 tra le numerose e varie manifestazioni che si susseguono nel Sannio beneventano c'è una particolare ricorrenza che avvicina due comunità del fortore: Molinara e Pesco Sannita. I due comuni, infatti, sono legati alla personalità dell'arciprete Giandomenico Viglione vissuto oltre un secolo fa e ricordato per i numerosi scritti (drammi, melodrammi, farse teatrali) che hanno lasciato una traccia significativa nelle tradizioni locali (su tutti il "Dramma di Santa Reparata"). In occasione del centocinquantesimo anniversario della nasciata dell'arciprete è stato istituito l'anno Viglioniano in ricordo di una figura influente e appassionata al proprio territorio. La ricorrenza verrà osservata con una due giorni -13 e 14 agosto- in cui si presenterà una pubblicazione curata da Mario D'Agostino dal titolo "Miscellanea" che raccoglie una serie di opere del Viglione. Stasera a Molinara e domani a Pesco Sannita sarò con IDEAS (che ha editato il libro) per due belle occasioni culturali che riguardano il passato e il presente della nostra Terra.

lunedì 12 agosto 2013

Una storia dimenticata. Diario (immaginato) di un pietrelcinese nella notte di San Lorenzo del 1861

Quello di agosto è un mese dell'immaginazione, delle vacanze. Dall'infanzia scopriamo il bello della festa prolungata e da adolescenti impariamo a sognare in una notte più stellata delle altre. Per i contadini di un tempo il ritmo della vita è quello di sempre. La trebbia ha appena solcato i campi dorati, il tabacco è alto e vigile e i pomodori sempre più rossi. Ogni anno nella notte do San Lorenzo sarebbe bello dedicare un pensiero ad una tragica notte del 1861. Molti pietrelcinesi persero la vita senza conoscere i motivi di questa sorte e il tempo ha oscurato totalmente questa storia alla memoria dei più. Vi propongo una pagina immaginata di un diario di un ragazzo che assisté a quegli eventi. Vi posto anche il link di un video estratto dello spettacolo prodotto da IDEAS e messo in scena due anni fa in occasione delle ricorrenze legate al centocinquantenario dell'unità. "A Pietrelcina agosto è un mese prediletto. Da molte settimane è già pronto il programma della festa e la Madonna de' Carre (Madonna della Libera) è adorna d'oro ancora una volta. C'è la processione, il concerto della banda, il palio, la corsa nel sacco e sono in tanti ad omaggiare la Madonnella da Paduli, da Pago Veiano, da Pesco Sannita, da Molinara. 10 Agosto 1861, lunedì scorso era ancora Festa ma questo è un anno particolare, oggi ci chiamiamo italiani e scopro che esiste un altro potere, un'altra cultura che arriva da molto lontano, da una terra che credevo si chiamasse Francia. È ancora buio ed una colonna di soldati si avvicina al mio paese scontrandosi con alcune bande di reazionari che quel nuovo stato proprio non lo vogliono. Il capo di queste ultime ha uno contranome bizzarro, ma in fondo chi è conosciuto con il nome proprio dalle nostre parti! Lo chiamano Pilorusso e viene da Colle Sannita. Dopo uno scontro terribile viene messo in fuga con i suoi compari ma qualcuno addirittura ci lascia la pelle. Quei soldati decidono che devono entrare in paese per effettuare un rastrellamento e nella confusione decidono che siamo tutti briganti. Sfondano i portoni delle nostre case, arrestano tanti pucinari e tra questi ci sono anche alcuni mie amici della cantina. Non ho il tempo di avvisare mio padre - che quella notte era rimasto alla masseria - che sentii dei botti. Erano colpi di fucile e quei pietrelcinesi videro per l'ultima volta a chiazza e la Chiesa della Madonna nostra".

                                            

http://www.youtube.com/watch?v=KFJyTxzB0Z8

domenica 11 agosto 2013

Due righe su di me


Un percorso di studi e di passioni eclettiche ha da sempre caratterizzato la mia formazione. L'amore per l'arte e per la storia, per la musica e per lo studio del pianoforte, il legame con la dimensione folklorica delle piccole comunità e la ricerca dei loro valori identitari, la pratica costante di sport come il calcio e la subacquea, i concerti, i libri, la drammaturgia del teatro napoletano. Queste alcune aree di interesse che contribuiscono alla maturazione di una personalità votata alla scoperta e all'incontro con l'altro e che non manca di lasciare spazio a momenti di riflessione e di ricercato isolamento. 30 anni ed una moglie splendida caratterizzano un percorso che, nel presente e nel prossimo domani, concentra le piccole grandi bellezze della vita.


Formazione • Dottore in Conservazione dei Beni Culturali con tesi di laurea in etnomusicologia presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. • Laureando in discipline musicali - biennio specialistico indirizzo pianistico - presso il Conservatorio di Benevento. • Corso di formazione “Orff-Schulwerk” - Educazione elementare alla musica e alla danza con bambini dai 3 agli 11 anni presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Roma Tor Vergata in convenzione con il CDM di Roma - Centro Didattico Musicale. • Master in Europrogettazione - Napoli 2013 PROFESSIONE • Operatore culturale presso il Centro di Promozione del Territorio della Provincia di Benevento. • Socio dell’Istituto DemoEtnoAgriculturale del Sannio - Ideas operante nel settore della ricerca, della tutela e della promozione dei beni culturali. • Responsabile commerciale e rapporti esterni della casa editrice Ideas Edizioni. • Ricercatore presso il “MedEatResearch” - Centro di Ricerche Sociali sulla Dieta Mediterranea dell'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. • Docente corsi di musica con metodologia Orff-Schulwerk PUBBLICAZIONI Autore di 4 pubblicazioni e di numerosi saggi di carattere storico, antropologico e musicale: - “Viaggio nella tradizione” - ed. Comune di Pietrelcina, 2010 - “Mangia polenta e mangia licco - Un'inchiesta socio antropologica sui 150 anni dell'Unità d'Italia”. Ideas ed., 2011 - “L’altra cultura italiana. Maccheroni, Canzoni, Culti, Immagini” - Ideas ed., 2011. - “Carnevale si chiama Scardone. Il ciclo delle feste di Carnevale nella tradizione Pietrelcinese” - Ideas ed., 2012. ATTIVITA’ DI MUSICISTA Spettacoli teatrali (musiche): - La parola mia contro la vostra - 2010 - Italia, santi, briganti e puttane - 2011 - Incontro con le muse - 2011 - La favola antica - 2012 Documentari (musiche): - Il Carnevale dello Scardone - 2011 - Pizza d’argilla. Gino Sorbillo pizzaiolo ceramista - 2012

sabato 10 agosto 2013

PERCHÉ QUESTO BLOG

Questo blog vuole provare nel suo piccolo a dare visibilità a quelle testimonianze culturali dalle quali molto scopriamo del passato del Sannio beneventano e da cui si potrebbe partire per tracciare una strada per uno sperato nuovo futuro. Un punto di visibilità ma anche di confronto tra diverse voci. Spazio particolare è dato al folklore nel senso letterale della parola. Un ambito nel quale il mio ruolo di operatore culturale e di ricercatore dei beni DEA ha lo scopo di stimolare riflessioni.
Tra le grandi criticità che da sempre i nostri territori (meridionali) hanno ostentato vi è, a mio avviso, l'incapacità di "stare insieme" per la costruzione di quel tanto pubblicizzato bene comune. La denigrazione delle idee altrui, la concorrenza a tutto costo, la diffidenza rispetto alle filiere, alle reti, ai marchi comuni. Ci sono sicuramente motivazioni storiche, culturali e responsabilità figlie della politica (ma, in fondo, la politica come lo Stato siamo noi). Di fianco a tutto questo esiste - o, meglio, persiste - una vitalità di linguaggi che da quella stessa "storia problematica" hanno ereditato un tratto identitario che si riflette in tante piccoli grandi esempi culturali. Dalla transavanguardia al teatro, dal jazz ai gruppi folklorici. Tutto questo in uno spazio territoriale in cui non manca il contributo di bellezza di madre natura e tutte quella eredità di usi e costumi che da essa ne derivano.
Il mio piacere è quello di condividere e farmi portavoce di esperienze, incontri, ricerche, piccoli saggi, immagini, testimonianze, progetti etc. derivanti dal mio lavoro in giro per il Sannio tra convegni e laboratori culturali, tra feste popolari e ricchezze ereditate dalla nostra memoria.