domenica 29 settembre 2013
Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere
Quella di Leonardo Sinisgalli è sicuramente una delle figure più interessanti nel panorama culturale del Novecento. Potrà sorprendere la sua presenza all’interno di un blog dedicato al Sannio. Sinisgalli, infatti, nasce a Montemurro, in provincia di Potenza, nel 1908; eppure, è proprio a Benevento che il poeta/prosatore potentino compie i suoi primi studi, ed è in viaggio verso Benevento che si compie uno degli eventi che più di ogni altro condizionerà la sua poetica futura.
Di famiglia umile, il giovanissimo Leonardo riesce, grazie all’intercessione del parroco del paese, impressionato dalla sua intelligenza e vivacità mentale, a compiere i suoi primi studi in un collegio, prima nel capoluogo sannita e poi a Caserta. La notizia del crollo del ponte sull’Agri, che Sinisgalli aveva attraversato per arrivare a Benevento, lo colpisce molto, al punto che la “paura del vuoto” (HORROR VACUI) diventa uno dei temi dominanti della sua poetica. Ma questa emigrazione forzosa segna anche la separazione definitiva di Sinisgalli dalle proprie origini, sancendo la sua morte di ragazzo (concetto presente anche nel poeta salernitano Alfonso Gatto, secondo il quale esiste un’età in cui il giovane muore per rinascere nell’età dell’adolescenza) e creando i presupposti per lo sviluppo futuro di tematiche fondamentali come quella dello sradicato/esule in patria e quella delle camere ammobiliate.
Eccellente poeta e notevolissimo prosatore (non è facile stabilire quale parte fu più eminente), Sinisgalli compie un percorso professionale davvero particolare: a Roma – il conseguimento della laurea in Ingegneria Elettro-tecnica sotto la guida del premio Nobel Enrico Fermi e dei maggiori scienziati dell’epoca, gli farà guadagnare l’appellativo di “poeta-ingegnere”; in particolare, frequentando gli ambienti artistici e intellettuali della capitale, Sinisgalli stringerà amicizia con il pittore Gino Scipione e con Ungaretti, la cui influenza sarà decisiva per l’orientamento poetico, sebbene i suoi versi, sin dall’inizio, se ne stacchino per una più elementare e al tempo stesso immaginosa discorsività.
Per poter coltivare gli interessi letterari, Sinisgalli rifiuta l’invito, rivoltogli da Enrico Fermi, di entrare a far parte del suo istituto per le ricerche sulla fisica atomica; eppure, dopo la laurea, nel 1931 si trasferisce a Milano, dove lavorerà presso importanti industrie, occupandosi anche di pubblicità e di design, mettendo insieme la duplice esperienza maturata in campo scientifico e letterario.
In effetti, tutta la sua produzione muove dall’esigenza di far convivere, nella scrittura, le sue due diverse vocazioni, che hanno trovato in lui un interprete e un promotore particolarmente qualificato: autore di cortometraggi scientifici, ha diretto nel 1953 la rivista “Civiltà delle macchine”, promossa dalla Finmeccanica, l’ente di Stato preposto allo sviluppo e alla gestione dell’industria metallurgica. Ma l’articolazione dei suoi interessi si rivela in particolare nei volumi di prose, tra cui Furor mathematicus (1944) e il già citato Horror vacui (1945), ma non tocca sostanzialmente le caratteristiche della poesia, che, fin dagli esordi, si esercita su un mondo di ricordi familiari e sulle immagini del paese natale, trasfigurando la dimensione primitiva in un’atmosfera favolosa e fantastica. Su questa linea, Sinisgalli curerà la trascrizione di filastrocche e canzoncine lucane, con un linguaggio di calcolata ed esibita ingenuità; così come le poesie, che trovano le proprie certezze nella mitizzazione di un mondo ancestrale.
La distinzione operata dal regime Fascista negli anni Trenta fra “cultura-azione”, che interessava direttamente le grandi masse, e “cultura-laboratorio”, elaborata da piccoli gruppi di intellettuali per un pubblico d’élite e dunque relativamente meno soggetta al controllo da parte della censura, costrinse i letterati a scegliere tra due possibili strade: o fare arte-propaganda per conto del regime e così venire i contatto con il grande pubblico, oppure ritirarsi in un atteggiamento di distacco e di “purezza” (cioè di estraneità a ogni forma di impegno sociale e politico) limitandosi a scrivere per pochissimi lettori. Per i poeti che scelgono questa seconda strada – i più significativi – ritorno alla tradizione significa ritorno alla purezza della lirica. Anche per l’influenza dominante del filosofo idealista Benedetto Croce e della sua idea dell’arte come intuizione pura, si opta per una poesia rarefatta, ridotta a semplice sensibilità metaforica, programmaticamente estranea a un tessuto logico o ragionativo. L’eclettismo lirico ispirato a questa linea di poesia pura trova in Leonardo Sinisgalli uno dei suoi più attenti esecutori.
Tra il 1938-39, la rivista fiorentina “Campo di Marte”, diretta da Vasco Pratolini e Alfonso Gatto, dà voce alla tensione sinisgalliana verso un’ essenza universale dell’uomo che solo l’arte sarebbe in grado di cogliere e garantisce fecondi punti di contatto tra il “suo” Ermetismo – meno “oscuro”, più aperto e discorsivo rispetto a quello quasimodiano e gattiano – e il nascente Neorealismo. La tendenza alla “poesia pura” – cioè assoluta, esclusivamente lirica e programmaticamente estranea al discorso logico ed ideologico – viene recuperata ed estremizzata dall’Ermetismo, che affonda le proprie radici in una ideologia volta a identificare la vita e la poesia.
La svolta degli anni Cinquanta determina profonde trasformazioni nell’organizzazione della cultura in tutto l’Occidente. Si sviluppa un’enorme “macchina culturale” che si articola in grandi “apparati” (editoria, televisione, cinema, audiovisivi, scuola), canalizzando i servizi e le merci verso una destinazione sociale di massa, organizzandosi industrialmente e puntando al massimo profitto possibile. Allo stesso modo, la scuola media dell’obbligo prima e la liberalizzazione degli accessi all’università poi segnano il passaggio dalla scuola media superiore e dell’università da scuole d’élite, com’erano sino a metà degli anni Cinquanta, a scuole di massa. Le conseguenze sono soprattutto due: il processo di proletarizzazione, già avviatosi nell’età giolittiana e poi bloccato dal Fascismo, riprende su vasta scala: l’intellettuale diventa “di massa”, trasformandosi in una sorta di “tecnico” o di “operaio intellettuale”; la funzione dell’intellettuale umanista, che era stata restaurata fra le due guerre e mantenuta dalla cultura dello storicismo postbellico, entra in crisi, anche a causa della perdita di prestigio dell’umanesimo in un mondo dominato ormai dalla tecnologia: si sfalda l’immagine dell’intellettuale come portatore di valore e depositario di una visione totalizzante del mondo. Di fatto, l’intellettuale non forma più ideologie ma può solo diffonderle da posizioni subalterne, per conto degli “apparati” in cui lavora.
Gli anni Cinquanta costituiscono per il poeta/prosatore potentino un periodo molto critico della sua vita; alla fine dell’ultima guerra la sua intera visione del mondo viene ridimensionata – in accordo ad un nuovo senso di irrequietezza esistenziale – come si evince dalle dieci pièces raccolte ne L’Indovino, un’ opera dove due sagome, due fantasmi, un Re e il suo Indovino, emblemi di tutti i dualismi – insieme opposti e confinanti tra loro – si rilanciano abilmente il discorso sollecitati da un’intesa straordinaria, volta a un comune cammino sapienziale, e magari a una medesima discesa infernale. L’universo de “L’indovino” è un luogo fermo e insensibile a ogni moto di espansione, ma racchiude al tempo stesso un potenziale di inquietudine e di sorpresa che ne anima continuamente la prospettiva e che non consente a Sinisgalli un’opzione definitiva tra matematica e poesia.
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