venerdì 17 gennaio 2014

Il Carnevale dello Scardone (trailer documentario Ideas)

Foto Generoso Marra


Collocato nel ciclo invernale che inizia con la semina e termina con la germogliatura, il Carnevale, nella motivazione iniziale si arricchisce di significati propiziatori.
Gli aspetti distintivi individuabili rispetto alle tematiche economico-sociali, così come indicato da Annabella Rossi, possono essere sinteticamente riconosciuti in: aspetto festivo, aspetto di ribellione e aspetto rituale. Comunemente ad altri fenomeni collettivi, il valore di festa si riferisce al periodo rituale definito nel tempo durante il quale si forma una comunità provvisoria che permane al di là delle vicende storiche. La funzione eversiva insita nel carnevale chiarisce l’aspetto di ribellione il cui significato rituale si rifà alle sue origini arcaiche legate a riti di propiziazione.
Ancora oggi il carnevale, con le sue feste e i suoi riti, “ha una funzione oppositoria e liberatoria sia a livello collettivo che individuale”. Le opposizioni vanno ricercate in riferimento al contesto storico-sociale in cui si trovano collocate le interpretazioni dei miti e dei riti. Dal Medioevo in poi il Carnevale assume la connotazione “moderna”, fortemente correlata alle dinamiche del valore e del potere della religione. Una prima opposizione è facilmente individuabile nella Quaresima. La contrapposizione, cioè, tra l’esaltazione delle virtù dello spirito e la mortificazione del corpo e la sublimazione dei piaceri materiali. Risulta evidente che una successiva opposizione consegue dai costumi che caratterizzano il contesto in esame. L’abbondanza di cibo (carni in particolare) e la licenza al divertimento si discostano notevolmente dalla consueta precarietà esistenziale degli individui delle comunità non solo rurali. Quello che il Burke definì “la promulgazione del mondo alla rovescia” inquadra un sovvertimento della normalità sociale in cui l’uomo si traveste da donna, il laico predica al religioso, il servo dà ordini al padrone. Il capovolgimento dell’ordine dà vita ad un paradosso, nel senso che le classi svantaggiate, nell’ostentare la propria rivalsa, dichiarano ed “espongono pubblicamente” le proprie origini, proprio nel tentativo di emanciparsene.
Il carnevale a Pietrelcina aggrega i tre aspetti distintivi inserendoli in uno spazio temporale molto esteso. I suoi festeggiamenti, infatti, hanno inizio il 17 gennaio per poi concludersi, in base a motivazioni non sempre precise o ricorrenti, il giovedì o martedì grasso oppure nella domenica compresa tra i due. E’ proprio il giorno in cui si festeggia S. Antonio Abate, Sant’Antuono, ad aprire i riti carnevaleschi che a Pietrelcina assumono alcune caratteristiche singolari. È in questo contesto che prende vita la maschera di Scardone creato ed esposto nelle varie piazze o contrade di Pietrelcina. (da Carnevale si chiama Scardone, Ideas Edizioni - 2012)

mercoledì 30 ottobre 2013

Halloween. Spunti e tradizioni da una "festa" contestata

Halloween.. festa straniera, tradizione lontana, appuntamento macabro, qualcosa che non ci appartiene! Queste sono solo alcune delle tante affermazioni che ritualmente riecheggiano nei giorni a cavallo tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre. Appuntamento tanto "contestato" dai presunti conservatori tradizionalisti eppure sempre più presente tra le "feste da celebrare" di bambini, giovani e neo pagani. Ricorrenza ricadente nella notte tra il 31 ottobre ed il 1^ novembre, Halloween si incrocia e si interseca con usi e tradizioni di provenienza eclettica e dalle motivazioni talvolta contrastanti. Sebbene gli strenui difensori delle così dette "tradizioni locali" si affannino a denunciarne l'estraneità - eludendo anche quella indicazione che vede la Tradizione come una "...innovazione ben riuscita" (Oscar Wilde) - molti sono gli elementi che legano una festa quasi del tutto commerciale all'identità del nostro territorio (e non solo). È il caso, quindi, di provare a fare un po' d'ordine muovendo da alcune "certezze" che almeno ufficialmente appartengono ai nostri costumi. Seguendo il ciclo delle stagioni ed i riti ad esso collegato a questa fase dell'anno si scoprono numerose ricorrenze di passaggio estate/inverno, fertilità/raccolto, semina/ibernazione etc. È ovvio che nelle civiltà contadine del passato l'ingresso nella stagione invernale non poteva non essere associato alla morte: "...se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo. Se invece muore, produce molto frutto" (Vangelo di San Giovanni 1 cor. 15, 36). Concetto, quello della morte, inteso in senso ampio: collegamento e ricongiungimento tra il sotto e il sopra (semina), sospensione dell'attività lavorativa e della fertilità (periodo di razionalizzazione dei beni), ma anche di passaggio e di rigenerazione: la morte che precede un nuovo inizio (i riti del fuoco poi legati anche ai santi Nicola, Lucia, Antonio Abate etc.). Un punto di partenza possibile per la comprensione degli elementi che compongono questa ricorrenza può essere un riferimento tradizionalmente legato alla nostra cultura: la festa di Ognissanti. Quest'ultima sembra fosse celebrata già ai primordi della cristianità ma fu ufficializzata solo nel 609, quando Papa Bonifacio IV dedicò il Pantheon alla vergine Maria e ai Martiri. Questa celebrazione cadeva il 13 maggio. Lo spostamento della data al primo novembre potrebbe essere uno dei tanti incroci con la ricorrenza di Halloween. I popoli del Nord Europa (anch'essi!) celebravano la chiusura del nuovo anno proprio il 31 di Ottobre con tutte le conseguenze simboliche e rituali di passaggio alle quali si è accennato sopra. Come d'abitudine, la Chiesa, nel tentativo di Cristianizzare senza intervenire troppo drasticamente nei "culti" pagani precostituiti, 'incastrò' le due ricorrenze per svilire l'appuntamento dai significati più arcaici. La decifrazione del significato del nome di Halloween, a quanto pare, è una delle prove più interessanti a conferma di questo percorso. La definizione, paradossalmente, ha origini cattoliche: dall'antica denominazione "All Hallows'Day" si arriva a"All Saints'Day"; la sera precedente al 1° Novembre era chiamata "All Hallows' Eve"(sera), abbreviata, poi, in "Hallows'Even", "Hallow-e'en" ed, infine, in Halloween. In linea generale, per i popoli nordici grande importanza era assunta dalla divinità di Samhain la cui festa cadeva proprio in questi giorni di passaggio tra estate e inverno (vecchio e nuovo anno) simboleggiando distruzione e ricostruzione. Un rituale che, nei suoi significati originari, potrebbe ricordare il "nostro" carnevale per la sua "...promulgazione del mondo alla rovescia" (Peter Burke). In sintesi, se è vero che una festa dedicata ai santi sia sempre esistita (in date discordanti) è lecito pensare che le istituzioni cristiane del nord Europa (non solo celtiche), nel loro impegno di transizione dai culti pagani, manifestassero l'esigenza di collocare un precetto cristiano su un'antico è consolidato culto (il capodanno celtico, appunto). Nulla di straordinario e di nuovo considerato che tra le festività più importanti della cristianità - come il Natale e San Giovanni Battista - ci sono numerosi riferimenti al ciclo solare. Il dislocamento di commemorazione che riguarda da vicino anche la "commemorazione dei defunti", in origine celebrata tra gennaio e febbraio (periodo di germinazione ed antecedente alla Quaresima) e che un'altra riforma della Chiesa nord europea colloca nel mese di Samhain (novembre). Il culto dei morti è il collegamento più diretto che solitamente si fa con Halloween e la discendenza arcaica di questo appuntamento. Senza indagare la nostra storia del legame culturale con l'aldilà - dall'ingresso all'ade della solfatara di Pozzuoli e della Mefite dell'Irpinia fino al cimitero delle fontanelle - proprio la commemorazione dei defunti porta con sé i maggiori collegamenti con Halloween. Basta una semplice elencazione di alcuni usi per accorgersene: le zucche illuminate presenti anche nel centro-sud Italia ed i 'nostri' lumini ai davanzali, la processione dei morti, le tavole lasciate imbandite per il passaggio dei cari reincarnati, il "dolcetto o scherzetto" e i nostri doni ai bambini. Per questi ultimi, la ricorrenza dei morti nel recente passato era vissuta alla strenua del Natale. Dalla Sicilia al Trentino i bambini erano coinvolti con piccoli doni o con un abbigliamento rituale (collane e corone di cibi secchi) e nel nostro Sannio erano in ansiosa attesa del mattino per il dono che i cari defunti avrebbero lasciato. Tradizione che in alcuni luoghi si è legata al culto di Santa Lucia (Nord Est Italia), all'Epifania (centro Sud) e, in generale, al periodo natalizio. Insomma, è probabile (ma chi può affermarlo) che la festa di Halloween abbia la sua origine più remota tra culture di provenienza lontana dalla nostra così come è vero che il culto e la venerazione dell'aldilà e di tutti i significati impliciti appartiene ad ogni cultura umana (compresa la nostra). Di certo Halloween così come lo conosciamo noi ha poco a che fare con i Celti e, forse, ne ha molto di più con la nostra civiltà occidentale moderna (della quale, volente o nolente, siamo fruitori ma anche artefici). Partendo dal presupposto che sono davvero rare (forse inesistenti) le tradizioni realmente antiche che ancora persistono nelle nostre abitudini - dai canti alle danze, dai simboli alle ricette, dagli abiti alle cerimonie nessuna ha più di qualche secolo - 'celebrare' Halloween non dovrebbe apparire qualcosa di così extraterritoriale. La tradizione è di chi la fa e segue evoluzioni che nessun legislatore o presunto custode può permettersi di bloccare, consapevoli che la Tradizione non riguarda solo aspetti bucolici del passato di cui difenderne a denti stretti i valori. Quando parlo in questi termini invito sempre gli interlocutori a pensare alle tradizioni di cui farebbero volentieri a meno...la condizione della donna, le fatture, le janare e le malelingue, il valore dato alle parole onore e vergogna e così via. Questo, a pensarci bene, riguarda anche Halloween considerato che a nessuno verrebbe in mente di tramandare, in questi giorni, la identitarissima tradizione di mangiare sulle tombe dei propri cari (Tradizione siciliana del '900). È pur vero considerare il recente consolidarsi di un gusto splatter e di passivismo a cui sono rivolte le nuove generazioni (alimentati anche dagli strumenti culturali e da un rinnovato decadentismo socio-familiare). Detto tutto ciò, credo che lo sforzo a cui forse inutilmente tutti ci sottoponiamo è comprendere cosa più o meno appartiene alla nostra identità. Ad un primo sguardo verrebbe da dirsi tutto e niente. Ma alla fine di tutto questo lungo discorso penso che l'unica cosa che è giusto chiedersi è che senso hanno oggi le così dette tradizioni? Mi spiego meglio: se dobbiamo lottare per la conservazione di un "costume" del quale si è persa la motivazione sociale e rituale è probabile che quella tradizione si è trasformata prima ancora che ce n'è rendessimo conto? Sarà tradizione ogni qualvolta, inconsapevolmente, gli daremo un significato rituale personale all'interno di una esigenza culturale sociale; ogni volta che un fidanzato comprerà la "cupeta" per la fidanzata o per la suocera; quando quello dei morti sarà l'unico periodo in cui andiamo al cimitero; e, perché no, allorquando i bambini del quartiere ci chiederanno un "dolcetto" in cambio di un sorriso bene augurante. Perché in fondo il rito non è altro che "...quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora diversa dalle altre ore" (Antoine De Saint-Exupery).

domenica 29 settembre 2013

Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere

Quella di Leonardo Sinisgalli è sicuramente una delle figure più interessanti nel panorama culturale del Novecento. Potrà sorprendere la sua presenza all’interno di un blog dedicato al Sannio. Sinisgalli, infatti, nasce a Montemurro, in provincia di Potenza, nel 1908; eppure, è proprio a Benevento che il poeta/prosatore potentino compie i suoi primi studi, ed è in viaggio verso Benevento che si compie uno degli eventi che più di ogni altro condizionerà la sua poetica futura. Di famiglia umile, il giovanissimo Leonardo riesce, grazie all’intercessione del parroco del paese, impressionato dalla sua intelligenza e vivacità mentale, a compiere i suoi primi studi in un collegio, prima nel capoluogo sannita e poi a Caserta. La notizia del crollo del ponte sull’Agri, che Sinisgalli aveva attraversato per arrivare a Benevento, lo colpisce molto, al punto che la “paura del vuoto” (HORROR VACUI) diventa uno dei temi dominanti della sua poetica. Ma questa emigrazione forzosa segna anche la separazione definitiva di Sinisgalli dalle proprie origini, sancendo la sua morte di ragazzo (concetto presente anche nel poeta salernitano Alfonso Gatto, secondo il quale esiste un’età in cui il giovane muore per rinascere nell’età dell’adolescenza) e creando i presupposti per lo sviluppo futuro di tematiche fondamentali come quella dello sradicato/esule in patria e quella delle camere ammobiliate. Eccellente poeta e notevolissimo prosatore (non è facile stabilire quale parte fu più eminente), Sinisgalli compie un percorso professionale davvero particolare: a Roma – il conseguimento della laurea in Ingegneria Elettro-tecnica sotto la guida del premio Nobel Enrico Fermi e dei maggiori scienziati dell’epoca, gli farà guadagnare l’appellativo di “poeta-ingegnere”; in particolare, frequentando gli ambienti artistici e intellettuali della capitale, Sinisgalli stringerà amicizia con il pittore Gino Scipione e con Ungaretti, la cui influenza sarà decisiva per l’orientamento poetico, sebbene i suoi versi, sin dall’inizio, se ne stacchino per una più elementare e al tempo stesso immaginosa discorsività. Per poter coltivare gli interessi letterari, Sinisgalli rifiuta l’invito, rivoltogli da Enrico Fermi, di entrare a far parte del suo istituto per le ricerche sulla fisica atomica; eppure, dopo la laurea, nel 1931 si trasferisce a Milano, dove lavorerà presso importanti industrie, occupandosi anche di pubblicità e di design, mettendo insieme la duplice esperienza maturata in campo scientifico e letterario. In effetti, tutta la sua produzione muove dall’esigenza di far convivere, nella scrittura, le sue due diverse vocazioni, che hanno trovato in lui un interprete e un promotore particolarmente qualificato: autore di cortometraggi scientifici, ha diretto nel 1953 la rivista “Civiltà delle macchine”, promossa dalla Finmeccanica, l’ente di Stato preposto allo sviluppo e alla gestione dell’industria metallurgica. Ma l’articolazione dei suoi interessi si rivela in particolare nei volumi di prose, tra cui Furor mathematicus (1944) e il già citato Horror vacui (1945), ma non tocca sostanzialmente le caratteristiche della poesia, che, fin dagli esordi, si esercita su un mondo di ricordi familiari e sulle immagini del paese natale, trasfigurando la dimensione primitiva in un’atmosfera favolosa e fantastica. Su questa linea, Sinisgalli curerà la trascrizione di filastrocche e canzoncine lucane, con un linguaggio di calcolata ed esibita ingenuità; così come le poesie, che trovano le proprie certezze nella mitizzazione di un mondo ancestrale. La distinzione operata dal regime Fascista negli anni Trenta fra “cultura-azione”, che interessava direttamente le grandi masse, e “cultura-laboratorio”, elaborata da piccoli gruppi di intellettuali per un pubblico d’élite e dunque relativamente meno soggetta al controllo da parte della censura, costrinse i letterati a scegliere tra due possibili strade: o fare arte-propaganda per conto del regime e così venire i contatto con il grande pubblico, oppure ritirarsi in un atteggiamento di distacco e di “purezza” (cioè di estraneità a ogni forma di impegno sociale e politico) limitandosi a scrivere per pochissimi lettori. Per i poeti che scelgono questa seconda strada – i più significativi – ritorno alla tradizione significa ritorno alla purezza della lirica. Anche per l’influenza dominante del filosofo idealista Benedetto Croce e della sua idea dell’arte come intuizione pura, si opta per una poesia rarefatta, ridotta a semplice sensibilità metaforica, programmaticamente estranea a un tessuto logico o ragionativo. L’eclettismo lirico ispirato a questa linea di poesia pura trova in Leonardo Sinisgalli uno dei suoi più attenti esecutori. Tra il 1938-39, la rivista fiorentina “Campo di Marte”, diretta da Vasco Pratolini e Alfonso Gatto, dà voce alla tensione sinisgalliana verso un’ essenza universale dell’uomo che solo l’arte sarebbe in grado di cogliere e garantisce fecondi punti di contatto tra il “suo” Ermetismo – meno “oscuro”, più aperto e discorsivo rispetto a quello quasimodiano e gattiano – e il nascente Neorealismo. La tendenza alla “poesia pura” – cioè assoluta, esclusivamente lirica e programmaticamente estranea al discorso logico ed ideologico – viene recuperata ed estremizzata dall’Ermetismo, che affonda le proprie radici in una ideologia volta a identificare la vita e la poesia. La svolta degli anni Cinquanta determina profonde trasformazioni nell’organizzazione della cultura in tutto l’Occidente. Si sviluppa un’enorme “macchina culturale” che si articola in grandi “apparati” (editoria, televisione, cinema, audiovisivi, scuola), canalizzando i servizi e le merci verso una destinazione sociale di massa, organizzandosi industrialmente e puntando al massimo profitto possibile. Allo stesso modo, la scuola media dell’obbligo prima e la liberalizzazione degli accessi all’università poi segnano il passaggio dalla scuola media superiore e dell’università da scuole d’élite, com’erano sino a metà degli anni Cinquanta, a scuole di massa. Le conseguenze sono soprattutto due: il processo di proletarizzazione, già avviatosi nell’età giolittiana e poi bloccato dal Fascismo, riprende su vasta scala: l’intellettuale diventa “di massa”, trasformandosi in una sorta di “tecnico” o di “operaio intellettuale”; la funzione dell’intellettuale umanista, che era stata restaurata fra le due guerre e mantenuta dalla cultura dello storicismo postbellico, entra in crisi, anche a causa della perdita di prestigio dell’umanesimo in un mondo dominato ormai dalla tecnologia: si sfalda l’immagine dell’intellettuale come portatore di valore e depositario di una visione totalizzante del mondo. Di fatto, l’intellettuale non forma più ideologie ma può solo diffonderle da posizioni subalterne, per conto degli “apparati” in cui lavora. Gli anni Cinquanta costituiscono per il poeta/prosatore potentino un periodo molto critico della sua vita; alla fine dell’ultima guerra la sua intera visione del mondo viene ridimensionata – in accordo ad un nuovo senso di irrequietezza esistenziale – come si evince dalle dieci pièces raccolte ne L’Indovino, un’ opera dove due sagome, due fantasmi, un Re e il suo Indovino, emblemi di tutti i dualismi – insieme opposti e confinanti tra loro – si rilanciano abilmente il discorso sollecitati da un’intesa straordinaria, volta a un comune cammino sapienziale, e magari a una medesima discesa infernale. L’universo de “L’indovino” è un luogo fermo e insensibile a ogni moto di espansione, ma racchiude al tempo stesso un potenziale di inquietudine e di sorpresa che ne anima continuamente la prospettiva e che non consente a Sinisgalli un’opzione definitiva tra matematica e poesia.

mercoledì 25 settembre 2013

Francesco Flora, umanista sannita

Colle Sannita è un piccolo borgo in provincia di Benevento. Qui, il 27 ottobre 1891, nacque Francesco Flora, uno dei maestri della vita letteraria italiana, che per tutto il corso della sua vita intrattenne una fitta rete di relazioni con personaggi di primaria importanza nel panorama culturale e politico del Novecento. Terzo di otto fratelli, Francesco Flora condusse i suoi primi studi tra Benevento e Roma, dove conseguì la laurea in Diritto, e dopo essersi avvicinato alle lettere «per trasporto e con metodo in gran parte autodidattico» - come egli stesso affermò nell’autoritratto pubblicato da “Letterature Moderne” nel 1960 – esordì con un articolo che apparve nel 1912 su “La luce del pensiero”. Nel 1921 pubblicò il saggio “Dal Romanticismo al Futurismo” e due anni dopo entrò nella redazione de “La Critica” (l’unica impresa editoriale anti-fascista non soppressa) diretta da Benedetto Croce, suo maestro, diventandone l’anno dopo editore responsabile, incarico che conservò fino al 1944. In un secolo in cui le imprese editoriali influirono notevolmente sulla vita intellettuale e sulla storia recente del Paese, favorendo momenti profondi di coscienza civile , il contributo di Francesco Flora permise di dare vita a processi importanti di elaborazione e di comunicazione delle idee. L’intensità del suo impegno politico e sociale risulta evidente tenendo conto della pluralità dei suoi campi di interesse: dalla fondazione e direzione di riviste letterarie, alla direzione di collane editoriali, alla presidenza di premi letterari, all’appartenenza o direzione di importanti istituzioni culturali: attività, queste, che fanno di Francesco Flora una delle figure che meglio esemplifica il rapporto degli intellettuali italiani del Novecento con il mondo dei libri e con il processo della loro produzione/circolazione. Ostile al Fascismo e sempre fedele alle proprie idee, l’intellettuale di Colle Sannita rifiutò la cattedra universitaria e un posto all’Accademia d’Italia pur di non prendere la tessera del PNF, intervenendo anche nel dibattito culturale e politico dalle pagine de “L’Unità”, per riflettere e far riflettere sulla crisi della circolazione dei libri e sulla mancanza della libertà di stampa. Alle pesanti vessazioni di cui talvolta fu oggetto, egli reagì sempre con coraggio e fermezza, attraverso una coerenza di parole e di azioni che derivavano proprio dal suo riconoscere, nel ruolo dell’intellettuale, una profonda responsabilità morale e civile. Da qui l’importanza che la “parola” rivestì per Francesco Flora, pensata come mezzo attraverso cui esprimere articolatamente un pensiero dando nome alle cose e verbo all’idea e, di conseguenza, partecipare in modo consapevole alla storia del mondo. In accordo a questo spirito, nel 1952 Francesco Flora fondò e diresse la collana SAGGI DI VARIA UMANITA’, esempi di saggistica che, per il metodo adottato e l’argomento scelto, soddisfecero le richieste più esigenti e sentite del lettore contemporaneo; una collana, dunque, senza preclusioni ideologiche e aperta a “voci” diverse purché ugualmente significative per le novità di proposte e di procedimenti. A tale proposito, lo stesso Flora, nella sua introduzione/premessa al primo volume della collana “Scrittori italiani contemporanei”, concludendo il suo discorso sull’Umanesimo dichiarò che […] l’umanesimo della lettera investe la nobiltà dello spirito: e significa responsabilità e libertà della mente per la libertà di azione, sia nell’affermazione che nel fertile dubbio. Il “vero” filologico e storico ricercato nella lettera si dice humanitas perché impegna tutto come l’uomo: e l’humanitas è essenzialmente parola. A quasi cinquant’anni dalla sua morte (Bologna, 17 settembre 1962), in un presente così segnato dall’ indeterminatezza della libertà di parola e di azione, il suo messaggio non può che apparire, dunque, quanto mai attuale e contemporaneo. Francesco Flora, condensando la prosa morale, filosofica e critica di Benedetto Croce con gli stimoli derivanti dalle letterature europee d’avanguardia, riuscì a dare vita ad una “poetica della parola” sempre attenta a porre in primo piano l’amore per la cultura e gli aspetti più “urgenti” del vivere contemporaneo. E questa corrispondenza puntuale tra pensieri e parole è possibile ritrovarla nell’archivio Francesco Flora, conservato presso il dipartimento di Filologia dell’Università della Calabria e dichiarato di notevole interesse storico dalla Soprintendenza ai beni archivistici per la Calabria; una documentazione che, con i suoi 134 fascicoli consapevolmente suddivisi in categorie, mira a disegnare il profilo di un uomo “impegnato” e grande nella cultura e nelle competenze. Di notevole interesse risulta senza dubbio l’analisi della documentazione epistolare: da segnalare il carteggio mondadoriano, che copre l’arco cronologico 1923-1956 e costituisce una valida testimonianza della preziosa collaborazione che per molti anni unì il Flora a casa Mondadori, per la quale diresse la storica e prestigiosa collana dei “Classici Italiani”; ma anche la corrispondenza con la sorella Clelia Lanzillotta, con la quale il letterato era molto legato non solo da un profondo affetto, ma anche da uno stretto rapporto di tipo professionale: Clelia, infatti, si occupava spesso di gestire la corrispondenza del fratello, rispondendo ad alcune lettere che gli venivano indirizzate. Non ultimo il carteggio epistolare prodotto tra i primi anni Venti e il 1962, che abbraccia ampia parte dell’intellettualità italiana novecentesca: critici letterari, poeti, scrittori, editori, esponenti della resistenza anti-fascista nel periodo fra le due guerre, quindi della vita politica post-bellica, a testimonianza di una eccezionale rete di relazioni intellettuali; e ancora, le numerose lettere di tutti quei giovani che in quegli anni si affacciavano al mondo della critica, i quali, prendendo l’intellettuale di Colle Sannita come modello, a lui chiedevano consigli e chiarimenti. Una lezione, quindi, quella di Francesco Flora, assolutamente attuale e da cui è necessario trarre insegnamento per affrontare i problemi contemporanei con lucidità di analisi e con coerenza di idee.

lunedì 9 settembre 2013

Pomeriggio a casa Mastronunzio

Cronaca di un pomeriggio nello studio dell’artista beneventano Antonio Mastronunzio. Un viaggio artistico nella sua casa-laboratorio in una cornice di colori, odori e suggestioni. Antonio Mastronunzio è un pittore e scultore sannita nato il 29 febbraio del 1956. Dopo gli studi al liceo artistico di Benevento ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Firenze e di Napoli. Ha all’attivo numerose mostre sul territorio nazionale, Bologna, Torino, Firenze, Napoli, Viareggio (per citare le principali), una ‘personale’ nella Repubblica Domenicana e nel 1990 ha esposto alla Galerie Jesse di Bielefed in Germania. L’artista, inoltre, nel Centro Gallerie Martani d’Arte Moderna - Ca’ La Ghironda - di Bologna ha allestito un’esposizione permanente di 90 sculture in pietra di Lecce e bronzo che danno vita a L’isola di Pasqua. Giuseppe Pittàno in una interessante recensione afferma che incontrare Mastronunzio è uno di quei doni che la vita offre raramente (...) pochi minuti per scoprire sotto quella scorza semplice e bonaria l’anima di un delicato poeta. Il nostro incontro ha inizio alle 17,00 di un pomeriggio feriale. Raggiungiamo il domicilio 7 di via San Cosimo dove l’artista ci aspetta per mostrarci i suoi lavori e forse dipingere per noi una tela. Raggiungere “Casa Mastronunzio” può essere considerato propedeutico all’incontro con l’artista. Spalle a Port’Arsa, con a sinistra il Ponte Leproso, passata la cappella dei santi Cosma e Damiano, si costeggia la recinzione della Stazione Ferroviaria “Appia”. In questo percorso dalle suggestioni contrastanti si è proiettati con immediatezza fuori dalla città in un contesto che parla di un’appena perduta ruralità di cui l’abitazione del pittore e scultore beneventano ne è una significativa testimonianza. In realtà “Casa Mastronunzio” dall’ingresso al cortile fino al ‘nucleo domestico’ rappresenta un introduzione verso una conquista emotiva della sua arte. L’artista ci accoglie con modi molto cortesi ed il suo saluto scandito da ‘baci familiari’ chiarisce subito il clima che si respirerà di lì in poi. Un uomo di 53 anni di piccola statura, capelli ingrigiti ordinatamente scomposti; un paio di pantaloni tracciati da tempere multicolori e polveri di gesso e marmo e camicie or ora cambiate in base alla temperatura, alla comodità, all’umore. Il primo incontro con l’artista è consuetudine svolgersi nel cortile d’ingresso di quella sorta di fattoria dell’arte. Come accennato, il sito ricorda una piccola casa rurale ora adibita ad abitazione, laboratorio, esposizione e deposito d’arte. Una sensazione di disorientamento accompagna i primi istanti. La concreta difficoltà nel distinguere e collocare lo spazio circostante crea disturbo ed eccitazione. Una ecletticità di forme ed essenze che non si esaurisce nelle sculture prima in pietra, poi in marmo; nelle terrecotte, nei gessi, nei ‘siliconi’; ancora nei cocci, nei sassi, nelle ‘tavole’. Questa ricchezza di manufatti più o meno attentamente ‘lavorati’ non si dispone ad arredare lo spazio, tantomeno a riempirlo. Alberi incisi, pareti affrescate, selciati dipinti, recinzioni ornate sono coinvolti in questo dialogo di forme contribuendo ad una sorta di scomposizione armonica dell’ambiente. Un’organizzazione spaziale barocchista che abusa di metafore e allegorie, figure che indirizzano ad un’intuizione che la ragione ed i sensi non potrebbero riconoscere e percepire. Molti soggetti ricorrenti animano le forme che dal linguaggio lirico dei profili approda talvolta nella provocazione con picchi di brutale malinconia. Valutare il grado di intenzione è cosa difficile a farsi. Di certo questo caos disposto (ma non organizzato) si intensifica e abitua quanti avanzeranno fino all’ingresso per l’abitazione. Un’assuefazione che non sgonfia le suggestioni perché, è tra le mura della dimora che sculture e statue danno spazio ai colori delle tele, tavole e affreschi. L’alloggio dell’artista si limita ad un’essenzialità domestica. Due piccole camere e poco altro costituiscono lo spazio abitativo. Infissi, pareti e soffitto sono distinguibili con difficoltà in quanto, laddove non sono ornati, dipinti o incisi, tele e piccole terrecotte si appoggiano ad essi. Cosa difficile risulterebbe l’apertura di porte e finestre senza l’aiuto (ed il permesso) del maestro. Questa apparente ed invadente confusione non sembra condizionare l’artista che con sorprendente lucidità dà prova di poter percepire qualsiasi spostamento o manomissione. Un evidente disordine e trascuratezza interessano altri aspetti. Mastronunzio è un accanito fumatore e se l’odore intenso di colori e polveri fa parte delle condizioni per la permanenza nella sua dimora, mozziconi e sigarette costantemente fumanti accompagneranno l’intera visita. Risulta evidente che entrare nella casa studio di Antonio Mastronunzio è quasi un’esperienza mistica. Dopo cinquant’anni di prolifica attività, l’artista sta vivendo ora quella che egli stesso ha definisce “quarta maniera”, fatta di intuizioni ed evocazioni suggestive. Mastronunzio dà vita alle sue creazioni lasciandosi commuovere da esse, vivendole e reinterpretandole secondo il suo gusto squisitamente surrealista. Le sue composizioni non ricalcano pedissequamente la realtà - in accordo ad un gusto realista che spesso e volentieri tende a nascondere ciò che è davvero importante mettere in risalto - ma si muovono da essa, nel senso che ogni paesaggio, ogni ritratto, verrà spogliato di tutte le caratterizzazioni oggettive e quotidiane, per divenire fulcro dell’esperienza dell’artista stesso, il quale riesce a coglierne le impressioni immediate pur lasciando intatto il senso profondo di realtà. Entrare direttamente in contatto con le opere dell’artista beneventano implica per il fruitore/osservatore un silenzio reverenziale, nel quale poter meglio tentare di comprenderne i motivi e le suggestioni. Nel domicilio di Antonio Mastronunzio non si troverà un solo angolo che non sia intriso di arte; e questo perché l’artista ha fatto della sua vita un continuo dialogo con essa. Meduse sognanti lasciano il passo a Veneri anti-conformiste. Equilibri formali raffaelleschi si alternano ad impianti scenici botticelliani fino a scorgere qualche punta espressionista. Antonio Mastronunzio, partendo dalla lezione metafisica dei De Chirico, radicalizza il percorso surrealista esprimendo il reale funzionamento “dell’automatismo emotivo”. Una manifestazione onirica per accedere a ciò che sta oltre il visibile. L’arte di Mastronunzio non si pone, però, con intenzioni polemiche o di ribellione. La si può scoprire, talvolta, in veste provocatoria (come ad esempio nella raffigurazione di un “ultima cena” con 14 personaggi dalla dubbia provenienza) ma quasi sempre come una chiave di lettura intima del conoscitivo dell’altra realtà. Colli e figure allungate, che ad una prima e superficiale considerazione rimandano a Modigliani, si arricchiscono di un ‘manierismo’ lirico e fascinoso. La visione delle sue “veneri” suggerisce un sentimento di bellezza ideale di Botticelliana memoria. Mastronunzio, dal canto suo, distacca le figure dal mondo reale senza alcuna opposizione e la bellezza corporea è sostituita da un’idea di bellezza dell’anima in armonia con gli elementi della natura e del cosmo. Lo stesso spazio universale che ispira le sue “visioni” prende vita nelle gradazioni e nelle intensificazioni delle colorazioni. Gialli, verdi, blu, aranci vengono poeticamente interpretati ma se l’istinto lo richiede una quasi idillica aggressività definisce tonalità scevre di alcuna mediazione cromatica. Una bellezza sinuosa che anche nei ritratti maschili (inferiori per numero a quelli del sesso opposto) presenta un fascino “femminile” quasi come un’associazione emotiva tra bellezza ideale e femminilità. “Casa Mastronunzio” un’alcova surreale. Luogo di incontri intimi con l’arte che nel caso dell’artista beneventano non fa abusare del lemma. Antonio Mastronunzio gode di una discreta notorietà che attende di emanciparsi per una consacrazione che stenta a giungere al definitivo riconoscimento solo a causa della incontrollabile irrequietezza che è propria di alcune vite il cui spirito è talvolta poco incline a compromessi più o meno edificanti. Ci accorgiamo che ormai la luce del giorno ha fatto spazio ai lampioni dell’immediata periferia beneventana e dopo circa quattro ore di presenza in “Casa Mastronunzio” è arrivato il momento di salutare l’artista. Ci allontaniamo con un ritratto che in quel pomeriggio stesso ha dipinto per noi ed invitandoci a ritornare ogni qualvolta ne sentissimo l’esigenza ci ringrazia perché attraverso la composizione di quella stessa pittura gli è stata offerta la possibilità di emozionarsi. Soltanto la nostalgia che caratterizza la sua separazione dalla tela chiarisce la misura ed il valore di quella emotività tutta imperniata sul tempo dell’azione pittorica, un momento di vissuto tra le parentesi della vita domestica e sociale.

giovedì 29 agosto 2013

Morcone abbraccia Massimo Troisi

Di lui si è detto essere il comico dei sentimenti, l'erede ultimo del teatro napoletano, il figlio d'arte di Eduardo, un 'semplice' comico dialettale e tante altre definizioni. Tutti ricordano il suo "Postino" ed in tanti hanno riso ammirandolo nelle vesti di Maria al grido ridondante della "Annunciazione! Annunciazione!". Per me Massimo Troisi rappresenta un piccolo grande tassello nei doni che una esperienza di vita può offrire. Non credo si tratti di idolatria ma di una vera e propria passione, di quelle dalle quali prendi ed in parte dai. È strano notare come quelli che amano Troisi, prima ancora della sua produzione cinematografica, ricordano e raccontano le sue interviste, gli interventi pubblici e in tv, gli aforismi, gli sguardi, i sorrisi malinconici. Quello che ho sempre amato di lui è il suo disamore per la retorica, il ruolo ed il rispetto dato alla donna (in tempi non ancora tanto maturi), l'ostinazione a parlare sempre e comunque col suo accento dialettale ("...se parlate toscano io vi devo capire e allora dovete capire pure il Napoletano"), i suoi punti di vista sempre trasversali che tendevano a dare visibilità anche a quelle parti marginali (Giuda è un pover'uomo; Noè un bigotto; il devoto è un egoista; etc.), il poetismo della sua malinconia. Massimo Troisi è nato a San Giorgio a Cremano cittadina dalla quale ha portato con sé modi, espressioni, ricordi ed un napoletano tutto indigeno. Dal 1994 è ritornato per sempre nel suo paese e nel cimitero lo ricorda un sobrio e intenso monumento funebre. Il legame che c'è fra Troisi e la sua terra è indissolubile, non fosse altro che lì vi è nato e cresciuto. Una terra che non manca di tradire come quando si dedicò al teatro contro l'alternativa del "posto" raccomandato o come quando dovette emigrare a Roma (perché a Napoli un attore può nascere ma non lavorare) e chissà in quante altre occasioni. L'ultima in ordine temporale riguarda il "Premio Troisi". Dopo i fasti dei primi anni - la prima edizione risale al 1997 - sembra che non si riesca (non si sappia?) a realizzare un evento stabile nel tempo capace di celebrare/rispettare la memoria di uno dei più grandi sangiorgesi dei nostri tempi (non l'unico uomo di spettacolo considerata la grande personalità di Alghiero Noschese). La conseguenza di tutto ciò è la fine del premio ritenuto troppo costoso e troppo al di sopra delle possibilità di una cittadina come quella pre-vesuviana. Tante sono le domande che sorgono ma una riflessione vince su tutte: cosa penserebbe Massimo di queste cose? come vorrebbe essere celebrato? Io una mia personalissima idea ce l'ho e quella del festival, della "manifestazione" sarebbe solo l'ultima delle iniziative. Quanto vedrei bene l'associazione del nome di Troisi ad iniziative sociali contro l'emarginazione, di formazione contro ogni forma di convenzionalismo, a tutela della bellezza, contro la mala-politica. Ma questo resta sempre un parere personale. Rimane il fatto che Massimo Troisi è patrimonio di tutti quelli che hanno incontrato un aspetto della sua bellezza e non risulti strano se un bellissimo paese della provincia beneventana (a confine col Molise, così come si affrettano a ricordare i mezzi di comunicazione) decida di ospitare una rassegna dedicata all'attore, regista e sceneggiatore italiano. È Morcone, infatti, a celebrare l'eredità di Troisi con una manifestazione partita alla fine del maggio scorso e continuata dal 26 al 29 agosto. Un comune già noto per alcune iniziative culturali e sociali affascinanti quali la fondazione della scuola civica di musica"Accademia Murgantina" ed il premio "Sergei Rachmaninov". Ringraziando Morcone per aver rimediato all'abbandono napoletano, ci godiamo questo "Troisi Festival" in attesa di offrire alle nuove generazioni una traccia concreta dell'esempio di grandi personaggi del passato, senza retorica e all'insegna della "qualità".

venerdì 23 agosto 2013

IBIDEM a Nettuno

“Ibidem – Astrazioni necessarie” e le fotografie di Antonio Volpone al NettunoPhotoFestival. 22 agosto 2013 alle ore 15.22.
Dopo il successo del Festival di Corigliano Calabro si rinnova l’appuntamento con Antonio Volpone. Il Sannio, grazie alle fotografie dell’artista beneventano, sarà presentato al NettunoPhotoFestival. Si terrà sabato 24 Agosto 2013 alle ore 18.30 nella splendida cornice del cinquecentesco Forte Sangallo di Nettuno la presentazione del volume “IBIDEM – Astrazioni necessarie” di Antonio Volpone edito da IDEAS Edizioni. La presentazione ufficiale al pubblico consterà dell’intervento dell’Autore, di Enzo Carli - Docente di fotografia presso l’Università di Urbino, di Mario De Tommasi – demologo e di Luigi Giova – Conservatore dei Beni Culturali. Durante la serata sarà proiettato il video “Le distorsioni necessarie” regia di Antonio Pizzicato con i testi di Sandro Pedicini e le musiche di Alessandro Tedesco e Umberto Aucone. L’evento è inserito all’interno del PhotoFestival “Attraverso le Pieghe del Tempo” conosciuto al grande pubblico anche come NettunoPhotoFestival. Rassegna annuale, giunta alla terza edizione e ideata e curata dall’Associazione Culturale laziale “Occhio dell’Arte” nella persona della sua Presidente Lisa Bernardini, che fra i suoi scopi ha quello di promuovere eventi artistici e culturali connessi ad opere di solidarietà sociale. La rassegna prevede diverse occasioni di incontro e di confronto fra fotografia, poesia e musica in un programma che è stato inaugurato il 20 agosto e terminerà il 1° settembre. Il coordinamento scientifico dell’iniziativa e’ affidato da questa edizione 2013 al Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Universita’ La Sapienza di Roma. Anche quest’anno tante ed importanti le mostre visitabili e i fotografi premiati: Maurizio Galimberti, Luigi Erba, Tony Gentile, Diego Mormorio. Da segnalare all’interno del Festival, una importantissima lettura portfoli. Sabato 31 Agosto la rivista nazionale FOTOGRAFIA REFLEX, con la collaborazione di Occhio dell'Arte, promuove infatti REFLEX DAY, una lettura portfoli che si svolgerà nell’arco dell’intera giornata. I lettori saranno, per conto della Rivista, il Direttore GIULIO FORTI; Roberto Mutti (LA REPUBBLICA), Luigi Erba (Fotografo e critico), Santo Eduardo Di Miceli (Fotografo e docente di fotografia). Membri onorari della Giuria il superospite straniero di quest’anno, il pluripremiato fotografo spagnolo Pep Escoda (Curatore SCANN OFF – Festival Tarragona), Tony Gentile (STAFF REUTERS - lettore portfolio solo nella fascia oraria 11.00-12.30) e Vittorio Graziano (fotografo e Direttore Artistico MED PHOTO FEST).Le stesse persone faranno parte di una giuria presieduta dal Maestro Franco Fontana che assegnerà tre premi ai migliori portfoli. Altre iniziative previste durante il festival: conferenze ed incontri culturali,spettacoli serali tra attualità e contaminazioni di linguaggi artistici diversi, proiezioni, workshop, presentazione di numerosissimi libri. La Direzione Artistica generale ed il coordinamento del NettunoPhotoFestival sono ad opera esclusiva di Lisa Bernardini, che oltre ad essere fotografa e Presidente dell'Occhio dell'Arte è ideatrice di questa Rassegna mentre la Direzione Artistica delle mostre d'Autore è affidata al critico fotografico italiano Roberto Mutti. CATALOGO PDF del PhotoFestival "Attraverso le Pieghe del Tempo" EDIZIONE 2013 http://www.occhiodellarte.org/documenti/c26ac85b736089b802dbf4c266571438.pdf Sabato 24 Agosto - Sala Sigilli “IBIDEM” – Astrazioni necessarie di Antonio Volpone Inizio: ore 18.30 Interventi: Enzo Carli - Docente di fotografia presso l’Università di Urbino Mario De Tommasi - Demologo Luigi Giova – Conservatore Beni Culturali Antonio Volpone - Autore Con proiezione video “Le distorsioni necessarie” di Antonio Pizzicato con musiche di Alessandro Tedesco e Umberto Aucone. La vendita del libro di Antonio Volpone e l’intero progetto IBIDEM nascono per finanziare gratuitamente corsi di fotografia per persone non abili. Con il patrocinio morale di: Provincia di Benevento, Comune di Pietrelcina, Comune di Paduli, Comune di Apice, Comune di Torrecuso, Comune di Guardia Sanframondi, Comune di Benevento